consulenza manageriale

venerdì, dicembre 23, 2005

Metodi diversi per la gestione dei processi - Novembre 2005

Negli ultimi anni, (dal 1980 approssimativamente) sono stati sviluppati da consulenti, manager e guru dell’economia, diverse metodologie per la gestione dei processi. In sintesi è possibile dire che si tratta essenzialmente di diversi punti di vista. Infatti tutti questi metodi presuppongono un orientamento al processo da parte delle organizzazioni.

Il Total Quality Management – TQM

E’ il più antico metodo per la gestione del processo orientato al cliente. Il concept implementato da Kaoru Ishikawa già nel 1950 è infatti “il processo dopo il tuo è il tuo cliente”.

Prevenire difetti ed errori quanto prima possibile in un processo, è alla base del Total Quality Management. Ciò permette di fornire prodotti e servizi che soddisfino il cliente, al costo più basso possibile. Il compito più importante è dunque concentrarsi nell’assicurazione della qualità dei processi e dei prodotti/servizi, attuando in maniera tale da migliorare la qualità e la soddisfazione del cliente interno (si può considerare cliente anche un collega, al momento in cui partecipiamo allo stesso processo aziendale) ed esterno, in maniera persistente e continua, d’accordo con le richieste e le aspettative degli stakeholders (clienti, fornitori, collaboratori ed azionisti).

L’implementazione corretta del total quality management produce migliore soddisfazione del cliente, elimina difetti e scarti, migliora impegno e motivazione nel personale, e fa crescere produttività e competitività.

Gli specialisti della qualità che hanno sviluppato concetti e metodi sul total quality management sono molti. I più noti, a parte K. Ishikaw, sono W. Deming, J. Juran and P. Crosby. Ciascuno di essi ha enfatizzato diversi aspetti del TQM, ma il loro messaggio è comune a tutti: “l’intera organizzazione, guidata da una leadership completamente coinvolta, deve essere impegnata al miglioramento della qualità, che è un processo continuo e che non ha termine. L’obiettivo deve essere la soddisfazione delle richieste del cliente attraverso il miglioramento dei processi. I processi saranno migliorati prevenendo i problemi e risolvendoli sistematicamente e continuamente”.

Crosby concentra l’attenzione sui costi della qualità. L’enfasi è posta sulla pianificazione per il raggiungimento di zero difetti e sul fare la cosa giusta la prima volta. (Crosby 1979)[i][i]
Juran paragona la gestione della qualità alla gestione economico/finanziaria. In ambedue i processi di gestione esistono tre stadi. Nel processo economico/finanziario i tre stadi sono il budget, il controllo e la riduzione. Nel processo di gestione della qualità gli stadi corrispondenti sono la pianificazione della qualità, il controllo della qualità e il miglioramento della qualità. (Juran 1989)[ii][ii]
Deming[iii][iii] ha creato l’ormai ben noto circolo PDCA (Plan-Do-Check-Act). Il concept è pianificare il miglioramento della qualità, portare avanti il piano, verificare i risultati e ricominciare da capo. In sintesi il miglioramento della qualità è un processo continuo.

Sono i processi che costituiscono i prodotti o i servizi che devono soddisfare i clienti, quindi lavorare con i processi è la chiave del miglioramento continuo. La natura ripetitiva dei processi fa in modo che il miglioramento sia continuo.


Business Process Improvement – BPI


Si tratta di un metodo molto efficace per il miglioramento del processo che produce per una qualsiasi organizzazione una maggiore efficienza. L’applicazione del metodo semplifica le attività del processo eliminando sprechi ed inutili passaggi burocratici.

Il Total Quality Management ha un approccio al processo dal basso dell’organizzazione mentre l’applicazione della metodologia BPI inizia contemporaneamente dall’alto e dal basso della organizzazione. Nel BPI i manager e gli specialisti hanno un ruolo importantissimo per il miglioramento del processo.
La base di partenza per l’applicazione del BPI sono i seguenti elementi significativi:

Il coinvolgimento totale del top management
L’impegno per una attività di lungo e medio termine
L’utilizzazione di metodi ben definiti
L’identificazione dei process owners
Lo sviluppo di misure e del sistema di reporting
La definizione dei processi

Attualmente, in special modo nelle organizzazioni medie e grandi, esistono diversi gruppi di lavoro dedicati al miglioramento dei propri sottoprocessi. In generale questi gruppi lavorano con entusiasmo e misurano le proprie performance. Il problema é che essi non conoscono l’effetto che il loro lavoro ha sulle altre attività del processo. La conseguenza é che spesso i sottoprocessi sono ottimizzati e il processo nella sua interezza non è stato migliorato. L’obiettivo del BPI è quello di rendere il processo nella sua interezza efficace ed adeguato. Questo vuol dire raggiungere i risultati richiesti e la riduzione delle risorse necessarie. Questo vuol dire anche fare in modo che i processi siano flessibili in modo da essere adattabili alle continuamente variabili esigenze del mercato e della stessa organizzazione. Altri obiettivi sono l’eliminazione degli errori, la riduzione dei ritardi, la crescita della conoscenza, la facilità d’uso, la fedeltà dei clienti, tutto ciò allo scopo di fornire vantaggi competitivi all’organizzazione.

Nelle organizzazioni complesse il BPI si sviluppa, in generale, in cinque fasi:

Organizzazione per il miglioramento
Durante questa prima fase il top management apprende la metodologia BPI, seleziona i processi critici, e nomina i process owner per ciascun processo selezionato. I process owners organizzano i gruppi di lavoro per il miglioramento del processo (Process Improvement Team - PIT) che stabilisce i vincoli, sceglie i metodi di misura, identifica gli obiettivi di miglioramento e sviluppa il piano di progetto (project plan).

Comprensione del processo
Durante questa fase il gruppo di lavoro (PIT) produce la mappa del processo attuale, analizza il rispetto delle procedure esistenti, raccoglie tutte le informazioni disponibili (costo, tempi, ecc.) ed allinea le attività correnti alle procedure. Lo scopo di questa fase è quello di raggiungere la conoscenza dettagliata del processo.

“Fluidificazione” del processo
Si tratta in questa fase di rendere il processo realmente fluido, vale a dire senza ostacoli durante il suo corso di azione. Non si tratta solo di semplificare ma di rimuovere tutte le attività che non aggiungano valore. E’ in questa fase del BPI che la creatività e la competenza del gruppo di progetto viene effettivamente messa alla prova.

Implementazione, misure e controllo
Il processo (migliorato) viene in questa fase realizzato (messo in funzione), i sistemi di misura ed i controlli vengono stabiliti. E’ indispensabile avere in funzione un efficiente sistema di report, in modo da poter attuare in tempi brevi tutte le modifiche necessarie.

Miglioramento continuo
Non bisogna mai perdere di vista il fatto che qualsiasi processo è migliorabile. E’ questo ora il compito degli effettivi operatori del processo.

Business Process Reengineering

Cosa significa BPR : Business Process Reengineering ?

“Analizzare il sistema di attività partendo dal risultato fornito al cliente. I processi vanno identificati, mappati e collegati ai bisogni dei clienti; non alle funzioni o ai dipartimenti."

Il Processo è l'insieme di attività correlate o interagenti che trasformano elementi in ingresso in elementi in uscita. I processi di un'organizzazione sono, di regola, pianificati ed eseguiti in condizioni controllate al fine di aggiungere valore.

“Un risultato desiderato si ottiene con maggiore efficienza quando
le relative attività e risorse sono gestite come un processo!

Questo non è un postulato teorico, ma un principio ormai acquisito, come "vissuto", in contesti profit e no-profit.

La gestione per processi non è un novità. Si ritrova anche nel Total Quality Management (TQM), nel Just in Time (JIT). Ma il BPR mette in luce come le precedenti tecniche fossero troppo orientate all’interno dell’azienda e quindi inadatte all’attuale livello di complessità del mercato e delle relazioni con i clienti. Di fondo, il miglioramento incrementale non è più ritenuto sufficiente. Lo scenario competitivo è troppo dinamico per tollerare ritardi nel miglioramento.

Si è constatata, in altre parole, la fine dell'organizzazione strutturata in maniera funzionale-gerarchica, a causa di una serie di punti di debolezza:
1) scarsa responsabilità delle funzioni operative che, invece, determinano la produttività dell'organizzazione
2) potere decisionale limitato al vertice
3) focus su ottimizzazione delle attività della funzione e non sul processo primario
4) tempi morti dovuti ad inutili comunicazione tra le funzioni

Le seguenti sono le fasi fondamentali del Business Process Reengineering:
1) Effettuare la “Mappatura” dei processi, identificando i processi operativi primari e quelli di supporto
2) Ridisegnare il flusso di processo, eliminando attività ridondanti e duplicazioni
3) Enfatizzare "l'appiattimento organizzativo" (in senso positivo) sui processi primari a scapito della "verticalizzazione" su attività ridondanti e non produttive
4) Ridurre i livelli gerarchici
5) Introdurre gruppi interfunzionali focalizzati e responsabilizzati
6) Inglobare, tramite operazioni di "job enrichment", le attività di supervisione.


Il metodo consiste nel focus sull'approccio sistemico alla gestione: identificare, capire e gestire (come fossero un sistema) processi tra loro correlati, contribuisce all’efficacia e all’efficienza dell’organizzazione nel conseguire i propri obiettivi.

Più in particolare, applicare tale metodologia vuol dire:
1) Cancellare invece di automatizzare:vengono eliminate le duplicazioni e le attività poco rilevanti
2) Accorpare più attività in un’unica posizione organizzativa (job enrichment): l’accorpamento delle mansioni consentito dalla tecnologie e dalla crescita del personale, consente di attribuire mansioni più complete.
3) Ridisegnare il processo oltre i confini dell’impresa, coinvolgendo Clienti e Fornitori in un'ottica di partnership
4) Misurare i risultati “in process” e ricominciare. Il cambiamento deve diventare una condizione naturale dell’organizzazione. Si deve adottare una concezione dinamica che consenta un adattamento continuo dei processi al mercato.

La reingegnerizzazione del Processo (BPR), porta ai seguenti vantaggi:
a) Semplificazione del lavoro
b) Riduzione della burocrazia
d) Ridefinizione ed ampliamento di ruoli e mansioni
e) Eliminazione dei colli di bottiglia
f) Miglioramento del layout
g) Analisi del valore Aggiunto

Per Reengineering dei processi (Business Process Reengineering: BPR) si intende, quindi, un radicale intervento di ristrutturazione organizzativa, volto a ridefinire i processi aziendali, facendo leva sull'analisi del valore delle attività che li costituiscono. In questo modo è possibile misurare il reale valore che le attività (e quindi i processi) aggiungono all'organizzazione in termini di produttività.



Innovare e Competere una necessità per le PMI (Piccole e Medie Imprese) - Novembre 2005

Le piccole e medie imprese italiane presentano tutte un problema di dimensione. L'assunto del "piccolo è bello", considerato fino a pochi anni fa un punto di forza del sistema imprenditoriale del nostro Paese, viene ora considerato una "criticità" se paragonato con le tendenze in atto su scala globale; si può dire che un mito è crollato, almeno in parte.

Numerosi convegni e indagini sul futuro delle PMI, (vedi ad esempio, il recente convegno biennale della Piccola Industria di Parma con la collaborazione del Centro Studi di Confindustria e della Doxa) affrontano il tema del "saper crescere" come elemento distintivo ed imprescindibile della strategia di una piccola e media impresa. Frequentemente si ribadisce che è necessario che in una PMI siano presenti i requisiti, le risorse e la cultura per l'elaborazione e lo sviluppo di una strategia in grado di differenziare l'azienda dalla concorrenza e fornire valore ai clienti.

Si parla molto di competitività, in realtà è proprio la strategia una delle leve principali della competitività; la strategia è uno strumento che insieme alla sperimentazione di nuovi modelli organizzativi può facilitare il cambiamento. La pressione competitiva non è sempre avvertita dalla piccola impresa come un fattore critico di sopravvivenza perché essa, fino ad oggi, si è ritagliata una propria collocazione di nicchia con una gestione quotidiana finalizzata, in primis, alla sopravvivenza.

La strategia di una PMI non ha quasi mai un respiro di medio o lungo periodo: spesso è improntata alla quotidianità e l'approccio manageriale, se così si può dire, è di tipo reattivo.

E' necessario introdurre nella PMI uno stile imprenditoriale orientato alla strategia e all'introduzione di nuovi modelli organizzativi in sintonia con i nuovi orientamenti1 della cultura d'impresa per avviare una fase di sperimentazione che aiuti a superare anche le attuali difficoltà di natura competitiva.

In Italia sono soprattutto le piccole e piccolissime imprese (microimprese) che devono trovare risposte efficaci in questa direzione. In generale, c'è la diffusa convinzione che esse non si possano permettere un management in grado di formulare strategie adeguate e avviare rilevanti cambiamenti organizzativi.

Una piccola impresa non può scegliere di sopravvivere, deve diventare competitiva e perciò ha la necessità di ritagliarsi una nicchia ecologica per i prodotti e i servizi offerti, con capacità competitive globali.

La maggioranza delle PMI, in Italia, spesso, hanno un'organizzazione scarsamente strutturata dove il capo è la sola persona a conoscenza di tutti gli elementi chiave della gestione aziendale; molte volte tali elementi formano un insieme caotico di dati e informazioni, che in presenza di buone capacità di sintesi possono costituire un punto di forza, ma anche di debolezza, in alcuni casi.

In una piccola impresa le attività di chi è al vertice devono essere particolarmente efficaci. Può essere utile porsi le seguenti domande:
Cosa riesce a fare veramente bene il massimo responsabile?
Cosa riesce a fare meglio di qualunque altro nell'azienda?
Tra le attività chiave, quali sono quelle di cui dovrebbe occuparsi?


Tra i compiti chiave vanno annoverati il rapporto con il personale dell'azienda; i rapporti con l'esterno, banche, mercato, grandi clienti, tecnologia.

Un'azienda che intenda muoversi in un'ottica competitiva globale deve necessariamente essere sempre informata sui propri mercati e sui cambiamenti che possono avere influenza sul proprio futuro. Essa ancora, in quanto a responsabilità e a competenze, deve necessariamente differenziarsi al proprio interno. La domanda che un piccolo imprenditore dovrebbe porsi è: come vanno gestiti e da chi i nostri processi interni.

Anche per un piccolo imprenditore, perciò, è vitale avere un sistema di gestione e controllo delle informazioni che gli consenta di determinare se:
i processi, le attività producono i risultati desiderati;
viene attuata o meno un'oculata gestione finanziaria;
viene misurata la produttività delle proprie risorse umane;
l'attività commerciale è gestita correttamente (pochi grandi clienti possono costituire una minaccia, quindi l'azienda è vulnerabile).

In sostanza il modello di imprenditorialità istintiva come fonte primaria del successo delle PMI deve essere sostituito da un nuovo paradigma imprenditoriale o di management, basato su pratiche progettate e gestite con efficacia ed efficienza. In questo senso l'attuale modello gestionale prevalente nelle PMI, di tipo empirico, basato su un problem solving reattivo, ha molta difficoltà a reggere.

Qual è allora il percorso del cambiamento da intraprendere, quali sono gli strumenti adatti per facilitare la transizione, senza indulgere a suggestioni di moda e a facili allarmismi? Non esistono scorciatoie, deve essere preferito un percorso di cambiamento fatto di piccoli passi, di lenta e meditata sperimentazione, con la verifica dei risultati di volta in volta raggiunti.
-----------------------------------------

1 Cfr. Modelli organizzativi per le PMI documento Gemini Europa S.r.l.

Self-efficacy: una strategia vincente per migliorare le prestazioni professionali - Ottobre 2005

"Le convinzioni che le persone nutrono sulle proprie capacità hanno un profondo effetto su
queste ultime. Chi è dotato di self-efficacy si riprende dai fallimenti; costoro si accostano
alle situazioni pensando a come fare per gestirle, senza preoccuparsi di ciò che potrebbe
eventualmente andare storto". Albert Bandura

Autoefficacia, aspettative di efficacia, convinzione di efficacia, convinzione di autoefficacia, senso di efficacia e senso di autoefficacia sono espressioni con lo stesso significato; secondo Albert Bandura, lo psicologo americano che nei primi anni del secolo scorso ha formulato il concetto, esse indicano nel loro insieme la convinzione della propria capacità di organizzare ed eseguire la sequenza di azioni necessaria per produrre determinati conseguimenti.

Insomma, l’autoefficacia è la convinzione della propria capacità di fare una certa cosa, o in altre parole, di raggiungere un certo livello di prestazione.Con il termine Self-Efficacy dunque si suole definire la percezione che noi abbiamo delle nostra capacità di portare a termine con successo il compito che ci troviamo ad affrontare. La “Autoefficacia” riguarda le nostre credenze personali, intese come capacità personali di organizzare le azioni necessarie per conseguire determinati livelli di prestazione. La percezione delle nostre abilità si basa su un processo di autovalutazione che chiama in causa la nostra storia personale di successi e insuccessi, rispetto al superamento dei compiti incontrati fino a quel momento. Bandura, nel definire il concetto di autoefficacia, individua tre dimensioni: ampiezza, intesa come numero di compiti che una persona ritiene di poter affrontare in situazioni problematiche; forza, ossia estinguibilità delle aspettative di autoefficacia di fronte ad esperienze di insuccesso; infine generalità, ovvero il grado di estendibilità delle aspettative ad altri contesti.

Schematicamente:

ampiezza:
ordinando per difficoltà varie attività, troviamo che le aspettative di efficacia di alcune persone sono limitate alle più semplici, a differenza di altre persone: l’individuo perciò si cimenterà con certi compiti, non con altri più impegnativi.

generalità:
alcune esperienze positive (o negative) creano delle spettative di efficacia strettamente circoscritte a quell’ambito particolare, altre inducono aspettative più generalizzate che investono ambiti che vanno al di là della situazione specifica in esame o in trattamento: ne risulteranno cambiamenti in più ambiti.

forza:
aspettative forti sopravviveranno più a lungo a dei feedback negativi o all’assenza di risultati positivi, aspettative deboli verranno meno prematuramente e porteranno l’individuo a desistere in un compito o in un’attività.


Nel dettaglio la teoria prevede che:

dal livello di self-efficacy che una persona possiede derivano:· la modalità di reazione alle difficoltà della vita,· l’entità dello sforzo e la capacità di perseverare di fronte agli ostacoli e alle esperienze di fallimento,· la quantità di stress e depressione vissuta.

I cambiamenti che possiamo osservare nel comportamento di un individuo possono essere a loro volta ricondotti almeno a 4 classi principali:
1. cambiamenti indotti da esperienze dirette dell’individuo, che possono essere concettualizzati all’interno dei processi descritti dalle teorie dell’apprendimento (condizionamento classico o operante);
2. cambiamenti indotti da esperienze indirette, che possono essere ricondotti all’apprendimento osservativo (vicario) e al modeling reale o simbolico;
3. cambiamenti in assenza di esperienze dirette o vicarie ma che possono aver luogo a seguito di input verbali (persuasione o convincimento verbale), ad esempio informazioni che inducano modifiche di aspettative e convinzioni.
4. Cambiamenti connessi a particolari stati di tensione emotiva che potessero essere intervenuti nel soggetto.

I cambiamenti comportamentali possono essere ricondotti ad un meccanismo comune che è essenzialmente cognitivo. Questo meccanismo ha a che fare con le aspettative e più precisamente con cambiamenti a livello di quelle aspettative che Bandura chiama di "efficacia personale" o "autoefficacia".

La teoria dell’autoefficacia costituisce un primo passo verso una teoria unificatrice del cambiamento, cioè verso una spiegazione del perchè le persone cambiano e quando cambiano fanno quello che fanno.

La teoria della self-efficacy si basa sull’assunto secondo cui i procedimenti psicologici sono mezzi grazie ai quali si creano e si rafforzano le aspettative inerenti l’efficacia personale.

Si distinguono le aspettative inerenti l’efficacia dalle aspettative inerenti il risultato. Queste ultime rappresentano complessivamente la valutazione espressa da una persona secondo la quale un dato comportamento condurrà a risultati sicuri, mentre l’aspettativa di efficacia è la convinzione di poter attuare con successo il comportamento necessario a produrre i risultati voluti.

Una volta che siano preliminarmente presenti le capacità appropriate e gli incentivi appropriati, le aspettative di efficacia diventano il fattore determinante nella scelta delle attività da parte delle persone, oltre che nel grado e nella durata dello sforzo sostenuto.

Ne consegue che:
1. L’autoefficacia, così come viene percepita dal soggetto, influenza in primo luogo la scelta delle situazioni: le persone intraprendono delle attività quando - in base a una propria autovalutazione - si giudicano capaci di tenere più o meno saldamente in mano la situazione; in caso contrario si sentono intimorite e tendono a procrastinare o evitare del tutto.
2. L’autoefficacia può influenzare l’ampiezza degli sforzi che verranno impiegati nella messa in atto di comportamenti appropriati al conseguimento di un risultato.
3. L’autoefficacia può influenzare la durata del tempo per cui tali sforzi verranno mantenuti, a dispetto degli ostacoli e delle esperienze negative che via via si presentano.


Le aspettative di efficacia personale non hanno solo la funzione di variabili intervenienti - variabili in grado di facilitare la predizione del comportamento dell’individuo - ma hanno anche e soprattutto un effettivo ruolo causale nel determinare il comportamento dell’individuo.
Secondo Bandura sono esse la causa più prossima nella lunga serie di interazioni sistemiche che modulano il comportamento umano.

Le aspettative di autoefficacia potranno modificarsi attraverso 4 diverse fonti principali:
1. attraverso esperienze dirette, come la constatazione di miglioramenti rilevati nel proprio comportamento e nelle proprie prestazioni;
2. attraverso esperienze vicarie (modeling);
3. attraverso metodi verbali, come consigli, persuasioni e suggestioni, autoistruzioni e tecniche di autocontrollo;
4. attraverso cambiamenti dello stato di tensione emozionale, che possono essere conseguiti, ad esempio, in virtù di mutate attribuzioni causali, di tecniche psicofisiologiche(rilassamento, biofeedback), di tecniche di desensibilizzazione sistematica, ecc.

La teoria dell’autoefficacia si è dimostrata utilissima per organizzare interventi psicologici, psicoterapeutici, educativi e didattici nei campi di intervento più svariati: nell’ambito della salute, per esempio essa si è dimostrata rivestire un ruolo determinante sia perché a livello della gestione degli stressor attiva sistemi biologici che modulano il benessere psicofisico, sia perché svolge funzione di controllo diretto sugli aspetti comportamentali modificabili della salute.

Le convinzioni di autoefficacia influiscono su tutti gli elementi di un progetto di cambiamento personale:
· La considerazione dell’idea di cambiare le proprie abitudini rilevanti per la salute;
· La disponibilità della motivazione e della perseveranza richiesti per cambiare nel caso in cui si decidesse di farlo;
· La costanza con cui vengono mantenuti i cambiamenti di abitudine ottenuti.


Anche in campo manageriale le tecniche di autoefficacia trovano vasta applicabilità, come dimostrano studi e ricerche condotte di recente nonché un rinnovato interesse sull’argomento e relativa “fioritura” di seminari e interventi formativi. In particolare a proposito dell’insieme degli elementi che strutturano il processo di scelta professionale, quello delle intenzioni imprenditoriali è considerato come una determinante chiave delle azioni imprenditoriali.

Approfondire il tema della intenzionalità imprenditoriale significa quindi considerare come il fenomeno imprenditoriale prenda l’avvio ben prima del processo di creazione di impresa vero e proprio, trovando origine in una fase di preparazione e predisposizione, in cui fattori psicologici e sociali assumono una importanza fondamentale.

Fra gli elementi personali in grado di influenzare le intenzioni imprenditoriali, le convinzioni di auto-efficacia personale sembrano giocare un ruolo rilevante. In che senso? I risultati ottenuti da ricerche sull’argomento testimoniano che:
a) i soggetti che dimostrano un più elevato senso di self-efficacy, mostrano più forti intenzioni imprenditoriali;
b) i soggetti che dimostrano un più elevato senso di self-efficacy, evidenziano atteggiamenti più positivi verso il lavoro imprenditoriale;
c) i soggetti che dimostrano un più elevato senso di self-efficacy, attribuiscono un ruolo più importante alle aspettative di supporto sociale nell’influenzare le intenzioni imprenditoriali.

Donatella L.M. Vasselli

Che cosa si intende per Knowledge Management? Gestione della conoscenza - Ottobre 2005

Sfortunatamente non ne esiste una definizione universalmente riconosciuta: sinteticamente per essa si intende il processo attraverso il quale le organizzazioni generano valore dalle loro risorse, e conseguenti attività intellettuali, e basate sulla conoscenza; in generale, produrre valore significa anche dividerlo tra i dipendenti o collaboratori, tra i dipartimenti e anche con altre aziende, nell’impegno comune di progettare e realizzare buone pratiche.

Che cosa risulta a fondamento delle suddette risorse o attività basate sulla conoscenza? In altre parole in che cosa si identificano? La loro classificazione varia a seconda del contesto aziendale in cui vengono praticate, ma in generale possono distinguersi in due categorie: quelle esplicite e quelle sottintese. Tra le prime sono da includere brevetti, , marchi di fabbrica, ricerche di mercato, liste di clienti, ovvero tutto ciò che in sostanza può essere documentato, archiviato e codificato, spesso con l’aiuto di un supporto tecnologico.

Senz’altro più difficile da afferrare risulta invece il concetto legato all’implicità di certi assetts, ossia il patrimonio di conoscenze possedute dagli individui, che in quanto tacito, può essere gestito e diviso, anche attraverso il sostegno tecnologico, ma non è esattamente identificabile.

Quali benefici possono attendersi le aziende dal Knowledge management?
Nell’ambito dell’odierna economia dell’informazione, le compagnie fanno derivare la maggior parte delle opportunità e conseguentemente del valore dallo sfruttamento delle risorse intellettuali: in quest’ottica il Knowledge management è considerato il fondamento di un clima di collaborazione. Nello specifico un efficace programma di Knowledge management dovrebbe aiutare l’azienda a realizzare una o più delle seguenti azioni:
- incoraggiare l’innovazione, attraverso il sostegno alla libera circolazione di idee;
- migliorare il servizio alla clientela attraverso una congrua razionalizzazione dei tempi di reazione;
- incentivare i profitti attraverso una collocazione più tempestiva sul mercato di prodotti e servizi;
- migliorare la posizione dei collaboratori riconoscendo il valore delle loro competenze e ricompensandoli per questo;
- razionalizzare le operazioni e ridurre i costi attraverso l’eliminazione di processi ridondanti e inutili.


Un approccio creativo al Knowledge management può condurre a un incremento dell’efficienza, della produttività e dei singoli profitti in ogni operazione di lavoro.

Quali sono le sfide del Knowledge management?
Spesso le aziende ignorano al loro interno questioni relative alla cultura e alla valorizzazione del personale. La necessità di far acquisire agli individui il concetto di Knowledege nanagement non dovrebbe essere sottovalutata: in molti casi ai dipendenti e collaboratori viene richiesto di rinunciare alla loro conoscenza ed esperienza, che in realtà costituiscono le vere caratteristiche che li rendono apprezzabili come individui, prima ancora che come lavoratori. Una delle modalità in genere applicate dalle aziende per rendere partecipi i dipendenti del Knowledge management è la creazione di un programma di incentivi economici, il che implica però che spesso questi ultimi rappresentano l’esclusiva motivazione a prendere parte al programma, senza considerare l’importanza dell’informazione, o conoscenza , cui essi contribuiscono. In altre parole la gestione della conoscenza (Knowledge management) dovrebbe costituire un premio in sé e rendere più facile la vita dei dipendenti, altrimenti il suo scopo fallisce.

La tecnologia può sostenere il Knowledge management?
Il Knowledge management non è un concetto basato sulla tecnologia: le aziende che realizzano sistemi centralizzati di raccolta dati, portali Web o altri tipi di strumenti elettronici nell’intento di mettere a punto programmi efficaci di Knowledge management, rischiano di perdere tempo ed energie economiche. Le decisioni relative al Knowledge management sono basate su tre elementi fondamentali, ovvero chi (le persone), che cosa (la conoscenza) e perché (gli obiettivi del proprio lavoro). Il “come”, ossia le modalità di applicazione, vengono per ultimi. Esistono in ogni caso applicativi di sostegno alla realizzazione di programmi di KM: modelli di accesso alle competenze, programmi di e-learning, chat e discussione, modelli di interazione sincrona, ricerca e raccolta dati etc.

Il Knowledge management non è statico
Ovvero il valore della conoscenza è suscettibile di modifiche ed evoluzioni, con il trascorrere del tempo: i contenuti di un programma di KM, di conseguenza, devono essere costantemente aggiornati, allo stesso modo in cui risultano variabili le competenze umane, o lo sviluppo dei prodotti o della ricerca e innovazione, o del marketing, allo scopo di mantenersi conformi ai cambiamenti delle pratiche e dei processi di lavoro. In questo senso, ancora, un programma di KM deve andare di pari passo con gli obiettivi aziendali, ci deve essere una plausibile e sottesa ragione legata al raggiungimento di certi risultati in termini di lavoro, per applicarlo.

Non tutte le informazioni rappresentano la Conoscenza
Le aziende in genere hanno cura di seguire e far proprie tutte le informazioni disponibili e funzionali al miglioramento dei loro processi, ma raramente la quantità si identifica con la qualità:in questo senso, per usare una metafora convincente, l’intento di un programma di KM è quello di identificare e disseminare “perle” di conoscenza, da estrarre dal “mare” delle informazioni.

Chi dovrebbe essere responsabile della realizzazione di un programma di Knowledge management ?
Alcune aziende hanno ricavato al loro interno uno staff appositamente dedicato allo sviluppo di programmi di Knowledge management, diretto da funzionari di alto profilo; altre si affidano a promotori interni all’area in cui il KM viene implementato.

Profilo ideale di un venditore di successo: i suggerimenti di Nido Qubein - Ottobre 2005

Presentiamo la sintesi di un articolo edito da Nido Qubein, imprenditore americano direttore di un’azienda di consulenza internazionale, presidente di una Fondazione omonima che finanzia borse di studio a favore di giovani studenti, e relatore accreditato sulle tematiche relative alla gestione aziendale in generale e al Marketing in particolare.

A proposito del contesto di vendita, l’autore parla di quattro distinti orientamenti verso cui si sarebbe indirizzato in modo radicale il mercato odierno.

Il cliente risulta più preparato, sofisticato, consapevole del “valore aggiunto” : in altre parole, più difficile da accontentare, il che significa che spesso, a fronte delle spese che sostiene, richiede un servizio supplementare, caratterizzato da effcienza e qualità. Ciò significa, tradotto in termini pratici, che gli addetti alla vendita devono acquisire la massima conoscenza dei prodotti e servizi che propongono; inoltre devono mostrarsi onesti e sinceramente interessati nel sostenere i clienti e nel procurare loro soddisfazione;

la competizione è più forte: il fattore decisivo rispetto alla scelta o meno di un servizio o prodotto da parte del cliente è sempre il costo del medesimo, il che significa che per distinguersi dalla concorrenza, ovvero dalla maggior parte delle aziende che offrono prodotti simili allo stesso prezzo, occorre fornire un vantaggio che faccia la differenza, ovvero un servizio più rapido, una conoscenza sempre aggiornata del prodotto, un’azione supplementare di assistenza (follow-up). Il successo nella vendita dipende non tanto dalle caratteristiche intrinseche al prodotto, quanto dalla capacità del venditore di proporlo:

il progresso tecnologico sta rapidamente rimpiazzando la figura del venditore ambulante: al giorno d’oggi le persone comprano direttamente attraverso posta elettronica o Internet, le aziende altresì non vanno più alla ricerca di persone che trattino articoli acquistabili più facilmente per telefono; in molti casi poi sono le stesse aziende a mettere a punto sistemi di self-service che possono essere gestiti da semplici commessi. A maggior ragione, per avere successo come venditore occorre affrontare la sfida in modo da distinguersi dalla massa dei venditori comuni, tramite il possesso di competenze specifiche, profonda conoscenza e atteggiamento positivo;

Il tempo è divenuto merce senza prezzo, sia per i venditori che per i clienti: per sopravvivere all’interno di un mercato dalle prospettive così volubili, c’è bisogno di una strategia chiara ed efficace e delle competenze necessarie ad implementarla; per far questo occorre possedere il Know-how funzionale alla realizzazione della strategia. Quando si acquisiscono e si applicano queste cose, si dimostra di “vendere buon senso”.

Nello specifico Vendere buon senso, nell’ottica dell’autore significa:

- comprendere il processo di vendita in modo da approcciarlo come un professionista altamente qualificato;
- entrare nella mentalità delle persone in modo da influenzarle all’acquisto;
- conoscere il modo in cui agire;
- sviluppare intelligenza, abilità, destrezza;
- possedere l’autodisciplina necessaria per realizzare ogni dettaglio della propria strategia tutto il giorno, e ogni giorno.

Professionisti e lavoratori

A chiarimento ulteriore dei concetti esposti, l’autore procede a una distinzione fondamentale per comprendere ciò che fa la differenza: quella tra professionisti e lavoratori.

Questi ultimi considerano le proprie attività generalmente come “carichi” da sopportare, nell’intento di procurarsi il necessario per vivere: di conseguenza non accettano responsabilità, eseguono semplicemente ciò che viene detto loro di fare, portano a termine i compiti loro assegnati senza preoccuparsi di considerare le possibili ricadute o effetti di ogni loro azione sul resto dei componenti dell’organizzazione di cui fanno parte, perché in sostanza, non si considerano parte di un’organizzazione; piuttosto la vivono come un’entità esterna, che può avere un impatto positivo o negativo sulle loro vite.

I professionisti , al contrario, guardano al proprio lavoro come a una componente gratificante della propria esistenza; carriera e vita personale sono elementi tra loro complementari e si integrano, nella loro visione. I professionisti inoltre si considerano parte attiva dell’organizzazione in cui operano e ne partecipano, nel senso che vivono intensamente i suoi successi o eventuali fallimenti. In questo senso i professionisti rappresentano un esempio: per seguirne il comportamento, e conseguire risultati di successo, occorre porsi nell’ottica di procurare vantaggio, anzi di rappresentare un vantaggio, per se stessi , ma soprattutto a favore della collettività di riferimento del proprio lavoro, quello che l’autore definisce “PRO”, e ancora porsi un alto standard professionale cui mirare, evitando di compiere prestazioni che possano andare al di sotto di esso.

Appunti sui concetti di tattica e strategia per l’impresa - Ottobre 2005

Spesso si è portati a confondere il concetto di strategia con quello di tattica.

L'etimologia della parola "strategia" è greca e significa "l'arte del generale", intesa come la capacità di arrivare ad una visione d'insieme che permetta di prendere le decisioni più corrette.
Intorno al 500 a.c., il generale cinese Sun Tzu nel suo trattato "l'Arte della Guerra" afferma che un buon condottiero non dovrebbe mai affrontare una battaglia senza prima avere ben chiara la strategia da adottare.Sun Tzu visse in un momento storico dove ben 7 diversi imperi si facevano contemporaneamente la guerra.Il problema focale era la formulazione di una strategia, che permettesse di aver ragione di un singolo avversario senza distruggerne le risorse, in modo da poterle riutilizzare e badando al tempo stesso a non indebolirsi eccessivamente per non essere facilmente attaccabili.La posta in gioco era la continuità del dominio e la prosperità dell'impero.

Se riportiamo quella situazione ai nostri giorni ed ai nostri interessi possiamo immaginare che Sun Tzsu, di mestiere, fa l'Imprenditore (o il manager), in una azienda che occupa un posto significativo in un mercato globale dove ci sono ben 7 (o più) diversi temibili concorrenti, che cercano di conquistare il predominio sugli altri attraverso la cattura e la fidelizzazione dei migliori clienti.

Il problema che deve affrontare l'imprenditore è la formulazione di una strategia risolutiva sul concorrente più pericoloso, senza peraltro indebolirsi tanto da essere facilmente attaccabile da un altro. La posta in gioco è la sopravvivenza dell'impresa e la sua prosperità.
In realtà ognuno di noi anche se in modo, a volte, disorganico e in parte inconsapevole segue spesso questi principi nelle attività quotidiane.

La strategia è dunque l'arte del generale, la tattica è il percorso da seguire per arrivarci.

In un'azienda la strategia riguarda i seguenti obiettivi:
La prosperità e la sopravvivenza
La remunerazione del capitale investito e dei fattori produttivi
La scelta dei mercati
La scelta dei bisogni da soddisfare
La scelta del business su cui concentrarsi
........
La tattica è il percorso organizzativo con il quale si raggiungeranno gli obiettivi strategici, come:
La definizione delle infrastrutture
La costruzione della rete commerciale
Lo sviluppo della funzione Ricerca e Sviluppo


Ne deriva che la tattica è conseguenza della strategia ed è ad essa legata da un rapporto causa-effetto, per cui non sarà mai opportuno organizzare alcuna struttura, senza aver prima definito una strategia.

La crisi di una organizzazione aziendale è spesso dovuta alla mancanza di una strategia o ad una formulazione non corretta ed alla confusione tra tattica e strategia.

Proviamo a rivolgere ad imprenditori e manager due gruppi di domande.

Domande sulla tattica:

1. Quali sono i tuoi processi di gestione?
2. Di quali strutture tecniche ed immobiliari disponi?
3. Com'è organizzata la tua rete distributiva?
4. Com'è costruita la tua organizzazione interna?
5. Com'è organizzata la tua struttura amministrativa e finanziaria?
6. Come determini i costi e i prezzi di vendita dei tuoi prodotti?
7. Come gestisci il tempo della tua giornata lavorativa?

Domande sulla strategia:

1. Quale remunerazione ti attendi dal capitale investito?
2. Quali mercati e quali bisogni intendi soddisfare? Quali indurre?
3. Con quale portafoglio prodotti e servizi intendi importi sulla concorrenza?
4. Perché i tuoi clienti dovrebbero comprare da te anziché da un tuo concorrente? Quali vantaggi hanno?
5. Chi vincerà e perché nel tuo segmento di nel medio/lungo periodo?
6. Quali sono le risorse generali necessarie per sostenere nel tempo il vantaggio competitivo della tua azienda?
7. Di quali informazioni hai bisogno per implementare una corretta strategia?


La maggior parte degli imprenditori e dei manager ai quali rivolgeremo queste domande, risponderanno puntualmente alle domande sulla tattica ma avranno grandi difficoltà a rispondere alle domande sulla strategia.

Molto spesso dunque il motivo della crisi della loro organizzazione può ricondursi al fatto che pur avendo una perfetta conoscenza delle loro attività, esiste un'inconsapevolezza del fine delle loro azioni. Quando poi esiste una vera e propria strategia questa incontra molti ostacoli nel tradursi in tattica ed azioni operative. Ma questo è un altro discorso che ci proponiamo di affrontare in un altro intervento.

L’organizzazione leggera (lean organization) e i 7 Sprechi - Ottobre 2005

Alcuni anni fa, per la verità parliamo della prima metà degli anni settanta, ero a Lusaka, in Zambia, con contratti di consulenza per l’area subshariana della Olivetti e della Intersomer (Società Internazionale Mercantile di Mediobanca).

La LENCO (Lusaka Engineering Company) era l’azienda più importante dello Zambia, dopo le miniere di rame, naturalmente, ed era partecipata al 40% da Mediobanca attraverso la Intersomer, 40% dallo Stato Zambiano e 20% dai Fratelli Piacenza; su licenza di questa ultima società la LENCO produceva autobotti e rimorchi, oltre ad avere altre lavorazioni meccaniche. Il personale era di circa 1400 persone.

Quando fui nominato General Manager della LENCO, tra le altre cose, trovai una trattativa che si protraeva da almeno sei mesi con una società cinese che stava terminando la linea ferroviaria Ndola – Darelsalam. I cinesi sono degli instancabili negoziatori. Portai presto a casa l’ordine, dovetti però accettare dei termini di consegna assolutamente fuori dagli standard LENCO: 60 giorni invece dei 120 canonici secondo il mio infuriato Direttore Produzione. L’ordine era però molto interessante ed inoltre i cinesi pagavano in contanti e col 50% in anticipo.

Si trattava di richiedere uno sforzo enorme ad una struttura profondamente gerarchizzata e, a mio parere, piuttosto rigida e burocratizzata.

Il giorno stesso della ricezione dell’ordine convocai una riunione con tutti i dirigenti dell’azienda ed alcuni quadri e capireparto. L’inizio fu alquanto burrascoso: si trattava di persone (italiani, inglesi, nigeriani, indiani, pakistani, filippini e zambiani) abituate a lavorare quasi a compartimenti stagni. Si convenne, prima di tutto, che non si potevano trascurare le lavorazioni ordinarie e che non si poteva rivoluzionare il piano di produzione già in essere. Si trattava dunque di sfruttare tutte le attrezzature e le risorse disponibili nei tempi morti del programma produttivo.

Insieme al gruppo di produzione esaminammo in dettaglio non solo le fasi di lavorazione dell’ordine in oggetto, ma anche tutte le fasi di lavorazione degli ordini già in produzione. E scoprimmo insieme una serie di buchi, tempi morti, fermi macchine, insomma una serie consistente di sprechi. Definimmo responsabilità e tempi per sfruttare al meglio le risorse disponibili e riuscimmo a far partire gli ordini di approvvigionamento il giorno dopo.

Concludendo: terminammo la commessa 6 giorni prima della scadenza.

Mi resi poi conto, molti anni dopo, di aver applicato i principi della “lean organization” e dei 7 Sprechi (7 Wastes).

Ecco i principi per una organizzazione leggera:

Primo principio: Definire il Valore
Il punto di partenza della caccia alla spreco è l'identificazione di ciò che vale. Il consumo di risorse è giustificato solo per produrre valore altrimenti è spreco.

Secondo principio: Identificare il Flusso di Valore
Il flusso di valore per un dato prodotto consiste nell'intera gamma di attività necessarie per trasformare le materie prime in prodotto finito. L'analisi del flusso di valore mette sempre in evidenza grandi quantità di spreco attraverso la classificazione delle attività in tre categorie:
Attività che creano valore (tutte quelle il cui costo può essere trasferito al cliente)
Attività che non creano valore ma necessarie (non sono eliminabili con gli attuali sistemi di sviluppo prodotto, gestione ordini e produzione)
Attività che non creano valore e non necessarie (possono quindi essere eliminate da subito).

Terzo principio: Fare scorrere il Flusso
Definito con precisione il valore (primo principio), identificato il flusso di valore per un dato prodotto o famiglia di prodotti ed averlo ricostruito eliminando le attività inutili attraverso la mappatura dei flussi (secondo principio); bisogna fare sì che le restanti attività creatrici di valore formino un flusso (terzo principio).I compiti possono quasi sempre essere eseguiti in modo più efficace se il prodotto viene lavorato ininterrottamente dalla materia prima al prodotto finito.Il flusso continuo in produzione si raggiunge soprattutto attraverso interventi radicali, che permettono di trasformare in breve tempo le attività produttive necessarie per fabbricare un prodotto da un sistema a lotti e code ad un flusso continuo.

Quarto principio: Fare in modo che il Flusso sia "tirato" dal Cliente
Quando l'azienda (o più in generale l'organizzazione) ha definito il valore (per il cliente), ha identificato il flusso di valore, ha eliminato gli ostacoli e quindi gli sprechi per fare sì che il flusso scorra senza interruzioni, allora è giunto il momento di permettere ai clienti di tirare il processo (cioè il flusso di valore). Cosa vuol dire? Vuol dire acquisire la capacità di progettare, programmare e realizzare solo quello che il cliente vuole nel momento in cui lo vuole.

Quinto principio: Ricercare la Perfezione
Questo ultimo principio va interpretato nel senso di miglioramento continuo. Infatti se si sono applicati correttamente i primi quattro principi si creano sinergie impensabili che mettono in moto un processo continuo di riduzione dei tempi, degli spazi, dei costi.




I 7 Sprechi (7 Wastes):

In un processo produttivo è possibile classificare gli sprechi in 7 categorie principali (Taiichi Ohno):

Attese
In generale si tratta di prodotto o parti che attendono di essere trattate, tipicamente Work in Progress

Sovrapproduzione
Produrre più di quanto richiesto dal cliente.

Riparazione
Unità difettose che necessitano rilavorazioni

Movimentazione
Di persone o cose che non aggiunge valore

Sovraprocessare
Utilizzazione di processi e procedure che non aggiungono valore

Magazzino
Di materie prime o parti in eccesso

Trasferimenti
Di componenti più di una volta


Oggi sappiamo che tutti gli sprechi, nelle sette categorie, possono essere evitati utilizzando un buon sistema di gestione della qualità.

Le Cinque tentazioni di un Leader - Settembre 2005

…..Vengono diffusamente, ma sinteticamente individuate da Patrick Lencioni, fondatore e presidente della Table Group, un’azienda americana specializzata in consulenza manageriale, e a sua volta esperto di gestione e sviluppo delle risorse umane.

Anteporre la carriera ai risultati: è la tentazione più forte da superare perché presuppone una concentrazione eccessiva, quanto naturale, su se stessi e sulla propria possibilità di avanzare nell’acquisizione di uno status professionale sempre più avanzato, anziché orientare la propria riflessione sulle necessità dell’azienda e sul modo di soddisfarle, ottenendo risultati concreti. La maggior parte dei manager a livello dirigenziale sono inclini a tale comportamento, che sminuisce, come diretta conseguenza, i valori e il significato stesso dell’organizzazione per cui si lavora e spesso, agendo in questo modo, il manager tende a premiare persone che in qualche modo beneficiano, esaltandolo, il suo ego, piuttosto che quelli che producono risultati importanti per l’azienda.

Anteporre la popolarità alla credibilità: il timore di divenire impopolari tra i colleghi rende il manager inefficace, dal momento che egli non riesce a implementare politiche aziendali che richiedono notevole responsabilità. E’ suo preciso dovere, in questo senso, “allertare” i suoi sottoposti sui compiti rispettivi da eseguire (possibilmente dopo aver chiarito a se stesso quali sono le aspettative loro richieste e dopo averli altresì resi responsabili di successi e fallimenti) e sulle probabili conseguenze di eventuali inadempimenti o mancati adeguamenti agli standard aziendali. Ciò è preferibile alla scelta, comunque non piacevole, di imporre il licenziamento, che spesso rimane l’unica alternativa da adottare, a fronte di un riconoscimento tardivo dei propri errori e dell’ovvia impossibilità di correggerli tempestivamente, senza che questo implichi il farsi malvolere dagli altri.

Assicurarsi che ogni decisione sia corretta: un manager che si rispetti dovrebbe superare il timore di prendere decisioni sbagliate: in ogni caso, di quali informazioni egli ha bisogno per muoversi correttamente? Senza un chiaro discernimento di qual è la missione, nonché i valori e ancora gli obiettivi principali, un’azienda, sostiene Lencioni con una metafora efficace, può continuare a “navigare sulla scia di tutte le informazioni sicure che possono essere acquisite, ma non può aspettarsi di crescere”. Il manager in sostanza, avendo paura di commettere errori, fallisce nella capacità di iniziativa. Mancando il coraggio di rischiare, la performance aziendale risulterà, quantomeno, “non brillante”…e d’altra parte il ritorno negativo per l’azienda di un simile atteggiamento potrebbe tradursi in una confusione e in una paralisi generale.

Evitare conflitti ad ogni costo: il desiderio di armonia è intrinseco anche in un ambito aziendale; tuttavia conflitti costruttivi che si instaurano tra i componenti i vari gradi gerarchici di un’organizzazione possono creare effetti benefici. Quando le persone hanno la possibilità di intervenire a dibattiti e discussioni, senza nutrire remore nei confronti dell’espressione del proprio parere e quindi possono, in sostanza, mettere le carte in tavola, l’organizzazione chiarisce a se stessa quali sono le sue effettive necessità e di cosa ciascuno dei suoi membri dovrebbe incaricarsi per soddisfarle. Le migliori decisioni vengono assunte solo dopo che le idee e le prospettive di tutti vengono debitamente considerate: maggiore è il feedback ricevuto, più grande è l’opportunità di arrivare a soluzioni ottimali e fattive.

Scegliere l’invulnerabilità, al posto della fiducia: un buon leader, per conseguire risultati di successo, deve confidare nel proprio staff, ovvero guadagnarne la fiducia; essa rappresenta la chiave per un produttivo scambio di idee. Attraverso la fiducia, alla cui base risiede, secondo l’autore, la consapevolezza di una vulnerabilità tipicamente umana e quindi reciproca (leader-subordinati), i conflitti si limitano alle questioni da dibattere sul lavoro e non sconfinano agli attacchi personali. Un leader, per essere efficace, non deve dunque temere di mostrare il proprio lato debole perché il profitto che riceverà dal fatto di riporre la propria nelle persone è grande.

Alle tentazioni così enumerate ed esposte, l’autore “risponde”, nella seconda parte della sua trattazione con altrettante indicazioni di comportamenti corretti. Cinque quindi quelle fondamentali individuate:
- Concentrarsi sui risultati, non sulla propria proeizione di carriera: il vero leader considera un fallimento personale il fatto che la propria organizzazione non riesca a raggiungere i risultati previsti e nel caso contrario, ovvero se l’azienda ha successo, guarda sempre “avanti”, proiettandosi verso il raggiungimento di obiettivi in successione.
- Lavorare al fine di conquistarsi il rispetto dei propri subordinati, non il loro affetto, ovvero responsabilizzare i propri dipendenti, non tanto per ottenerne in cambio favori o in generale compiacenza, bensì in modo che assumano incarichi personali e si comportino di conseguenza, al solo scopo di pervenire a risultati positivi
- Non aver paura di commettere errori: un leader efficace può affrontare l’eventualità di sbaglliare, perché ogni “mancanza “può essere corretta, mentrenon è possibile sacrificare il benessere dell’azienda a vantaggio del benessere personale o del mantenimento di una “buona immagine”.
- Mostrare tolleranza-incoraggiare-discutere: tutte le idee devono essere presentate e costruttivamente dibattute, per migliorare il clima aziendale generale e pervenire più facilmente all’elaborazione di lineeguida e alla programmazione di obiettivi.
- Essere fiduciosi non è sintomo di debolezza: al contrario infondere fiducia rappresenta la chiave per coinvolgere il personale in un proficuo scambio di idee

Esistono anche altri fattori, o forze esterne che dir si voglia, che possono influenzare il comportamento del leader e renderlo incline al fallimento: tra le principali , individuate alla conclusione del ragionamento da parte dell’autore, la concorrenza e la pressione del mercato. La vulnerabilità in generale, in ogni caso, può essere “misurata” dal leader se questi si pone diverse domande, formulate in prima persona, cercando di trovare di volta in volta delle risposte congrue. Tra le altre:
- Pensi che l’insuccesso dell’azienda rappresenti un insuccesso personale?
- Sei amico dei tuoi dipendenti?
- Ami discutere con i tuoi colleghi di questioni di lavoro?
- Prediligi incontri piacevoli oppure animati dalla discussione?
- Trovi difficile ammettere di aver sbagliato?

Etc., etc,…..

Execution, ovvero l’arte di condurre a buon fine le operazioni aziendali - Settembre 2005

“Il compito più importante di un leader consiste nella realizzazione esecutiva dei progetti, il che comporta un lavoro attento e capillare, “di dettaglio”, che renda al contempo certi del raggiungimento di certi risultati da parte dello staff aziendale: si tratta di un tipo di responsabilità in delegabile; è dovere primario infatti di ogni leader provvedere a che ogni membro del proprio team porti a compimento la propria parte del piano aziendale, al fine di assicurare l’intero successo aziendale”.

Larry Bossidy e David Brandt, americani autori di bestseller su tematiche manageriali, sostengono la tesi anzidetta in una loro recente pubblicazione sull’argomento e forniscono suggerimenti pratici sul modo migliore di mettere in pratica l’execution, procedendo anzitutto, nella prima parte dello scritto, alla sua definizione, che sintetizzano nel modo seguente:
- l’Execution è una disciplina, fondamentale per l’attuazione di qualunque strategia aziendale;
- L’Execution è di pertinenza del leader, di colui che in sostanza guida l’azienda e richiede come tale da parte sua una comprensione globale delle problematiche relative al lavoro, al personale e all’ambiente in genere. Il coinvolgimento attivo di tutte le parti è fondamentale e il dialogo, franco e realistico deve costituire il cuore di questa filosofia;
- L’Execution deve divenire un fatto culturale, cioè essere inserita nei sistemi di revisione e nelle norme di comportamento aziendale, rappresentando il risultato di uno sforzo collettivo, e non limitandosi a un fatto individuale.

Tre sono invece i “Building blocks” (ovvero i “pacchetti di costruzione”, espressione efficace per intendere i consigli concreti da seguire nel perseguimento dell’execution) indicati dagli autori nella seconda parte della trattazione:

I sette comportamenti fondamentali del Leader:la conoscenza del proprio staff e della propria organizzazione aziendale, fino alle più piccole unità; la costanza nel mantenersi realisti, ossia nella consapevolezza permanente di quelle che sono le proprie debolezze e capacità, tenendo sempre presente il punto di vista dei consumatori e dei competitori; lo stabilire obiettivi e il concentrarsi su priorità definite, in modo da massimizzare le risorse di cui si dispone; il monitorare continuamente la situazione, per assicurarsi che tutti i subordinati abbiano eseguito i compiti loro assegnati; incentivare con premi i propri collaboratori; potenziare le abilità dei singoli fornendo loro un esempio pratico, e non limitato dunque alla mera impartizione di ordini, di come le cose andrebbero fatte; conoscere infine se stessi, darsi determinazione e risolutezza nell’affrontare le situazioni, in modo che gli altri ci imitino.

Creare l’ambiente adatto per un vero e proprio cambiamento culturale:non si possono creare cambiamenti per il solo gusto di rivoluzionare l’assetto aziendale, ogni modifica al contrario deve essere orientata al raggiungimento di risultati e in questo senso occorre far si che vi sia una cultura aziendale operativa, che identifichi credenze e atteggiamenti che influenzano i comportamenti, in particolare quelli che risultano dannosi per l’azienda e la crescita dei lavoratori; e bisogna ancora fornire incentivi economici e non, in considerazione dei differenti risultati ottenuti dai propri collaboratori, non prima di aver concordato con loro gli obiettivi da raggiungere; inoltre è fondamentale considerare la gestione sociale dell’Execution, vale a dire fattori esterni alle regole e ai ruoli strutturati, quali i valori, la motivazione, le credenze in generale: quello che gli autori definiscono il “Social software”si riferisce a meccanismi di operatività sociale, che a loro volta possono modificare i comportamenti e riconducono in ogni caso a qualsiasi opportunità di dialogo all’interno dell’organizzazione: è auspicabile cogliere tali opportunità al fine di osservare le varie unità di cui si compone l’azienda, procedere con più facilità a pianificazioni, aggiornamenti e valutazioni; infine l’importanza di un dialogo forte, che incoraggi tutte le persone coinvolte nel lavoro a palesare le proprie intenzioni e a orientare i propri pensieri verso soluzioni e risultati e di un esempio costante da parte del leader, che deve “presenziare” nella vita di coloro i cui comportamenti egli desidera influenzare e tanto maggiore in questo contesto risulterà il proprio coinvolgimento, tanto più grande sarà il successo in termini di qualità del lavoro e produttività.

Avere le persone giuste al posto giusto: assumere persone “giuste” è altrettanto importante quanto dedicare del tempo alla pianificazione: si ha bisogno in questo senso di persone non solo capaci, ma che siano anche in grado di far evolvere le proprie potenzialità in funzione della crescita del lavoro e per far questo occorre tempo, al fine di adattare le attitudini dei singoli ai propri progetti e alla propria “vision” aziendale. In particolare il personale assunto dovrebbe:infondere energia negli individui, essere decisivo su questioni importanti e ricevere un costante feedback in termini di compiti realizzati, di processi portati a termine dagli altri. Il reclutamento in ogni caso è un processo critico, che necessita di una personale attenzione. Nella valutazione altresì, altro momento importante nel rapporto con il personale, la trasparenza dovrebbero essere attuata nella duplice direzione di conoscere la verità sulle eventuali debolezze, come sui punti di forza delle persone, e discuterne con loro, al fine di trovare soluzioni e aiutarli a sostenere se stessi.

Nella terza parte del libro in questione, dal titolo “Execution: the discipline of getting things done” (la disciplina del “far bene le cose”), gli studiosi si soffermano su tre processi chiave dell’Execution:

The people process, il processo che riguarda le persone e che presuppone il compimento di tre azioni, ossia la valutazione accurata, la “fornitura” di strumenti per individuare e sviluppare il talento relativo alla leadership di cui l’organizzazione ha bisogno per mettere in pratica le sue strategie e l’attenzione a che il discorso della leadership venga seguito nel tempo come base per l’elaborazione di progetti vincenti. Anche questo processo identifica dei building blocks: nello specifico essi consistono anzitutto nel creare un legame forte tra il capitale umano e la strategia (il che si traduce soprattutto nella ricerca di professionalità adatte agli obiettivi da raggiungere); poi nel perseguire il miglioramento continuo e nell’evitare il più possibile il rischio di cedimento o allontanamento del personale ( da attuare attraverso l’offerta di incentivi e l’apertura di un percorso di mobilità ascendente); ancora nella gestione di quelli che vengono definiti “non performers”, ossia le persone che non riescono per qualche motivo ad “incontrare” gli obiettivi stabiliti dall’azienda e a contribuire alla loro realizzazione (nel caso occorre valutare le singole situazioni e procedere a trasferimenti, o ad una formazione più adeguata, o più drasticamente a un licenziamento); infine connettere strettamente insieme le risorse umane con i risultati (in questo senso il Dipartimento delle risorse umane deve oggi principalmente assolvere alla funzione di “riempire” le posizioni che sono e saranno necessarie per la realizzazione di piani e progetti, reclutandole eventualmente anche dall’esterno e identificando quali di esse presentano aspetti critici).

The strategy process, il processo relativo alla strategia, per il quale si osserva che anche le strategie più brillanti sono destinate a fallire se non vengono “calate” nella realtà, vale a dire se non tengono conto di alcuni fattori quali la competitività, le capacità personali della forza lavoro, il mercato, l’offerta dei prodotti. L’adattabilità ai cambiamenti dovrebbe essere sempre considerata: bisogna esaminare più volte il proprio lavoro progettuale per appurare se è stato eseguito propriamente, se i passaggi attuali e futuri hanno una loro validità costante e se le persone incaricate conseguono i risultati previsti. In questo contesto è inoltre necessario tenere presente la differenza tra le strategie a livello di unità e quella a livello più generale, ovvero quella aziendale:mentre quest’ultima ha lo scopo di integrare in un discorso unitario e volto al raggiungimento di un unico obiettivo la pianificazione che in termini più specifici viene condotta all’interno delle unità in termini di previsione di costi, rischi, risorse e nuove opportunità. Il piano strategico dovrebbe essere attuato da persone in grado di eseguirlo, ovvero coloro che conoscono da vicino, per averle sperimentate sul campo, le realtà aziendali e le effettive potenzialità dell’organizzazione; ci sono una serie di questioni a questo proposito che converrebbe porsi: ad es. le aspettative sono realistiche? Come sta procedendo l’azienda all’interno del mercato e in che modo la nostra strategia può eventualmente modificare la situazione? Chi sono i nostri competitori e quali sono loro punti di forza? Qual è l’assetto dell’ambiente esterno? (per rispondere a quest’ultima domanda bisognerebbe monitorare le tendenze e gli eventi in ambito politico, economico, sociale). La revisione di un processo strategico inoltre dovrebbe essere un esercizio creativo e in questo senso è utile discutere riguardo al modo in cui sono state condotte le strategie in passato, senza tuttavia soffermarsi eccessivamente sulla riflessione, bensì utilizzandola come sprone per darsi nuovi imput.

Sound assumptions, ovvero l’assunzione di impegni: per concepire una pianificazione basata sulle proprie esperienze correnti, occorre necessariamente assumersi degli impegni nei riguardi del mercato, delle proprie occasioni di produttività contro la concorrenza etc., il che significa in termini concreti dibattere tali questioni con il proprio team e ancora una volta porsi delle domande: che tipo di realtà ci troviamo ad affrontare oggi? In che modo il cambiamento potrebbe superare il corso dei prossimi mesi o anni? E’ necessario rivedere gli impegni sui quali sono state elaborate le proposte precedenti e valutare la loro validità, nonché esaminare tutte le possibilità o fattori che in qualche modo influenzano il proprio lavoro. Ancora: è importante costruire un “piano operativo”che tenga conto in primis delle eventuali vulnerabilità dell’azienda e che riceva, in sede di elaborazione, il contributo di tutte le persone coinvolte nel raggiungimento degli obiettivi. Quanto infine agli esiti del processo operativo, occorre controllare in che modo le singole azioni compiute influenzano l’andamento aziendale, in particolare per ciò che attiene al collocamento delle risorse.

Tom Peters: la scoperta dell’eccellenza nella gestione d’impresa - Giugno 2005

La riflessione critica condotta da Tom Peters, autore di bestseller sul tema dell’organizzazione del lavoro e le sue varie implicazioni, muove i primi passi da una ricerca, condotta in collaborazione con Robert Waterman, nel 1977, che prendeva in esame 43 compagnie caratterizzate da un’ottima posizione economica sul mercato, e si concludeva con l’elaborazione della formula di analisi del comportamento e della cultura aziendale, detta delle “Seven s” (sette s, ovvero struttura strategia, sistemi, stile di gestione, skills, ossia competenze, staff e shared values, vale a dire valori condivisi).

Peters e Waterman furono inoltre in grado di individuare, nelle aziende selezionate, otto criteri comuni, che potremmo definire “attributi di successo”, che prescindevano, per così dire, da indicatori economici: tra gli altri il contatto continuo con i clienti, la produttività affidata in primis alla capacità delle risorse umane, l’autonomia operativa finalizzata a incoraggiare gli imprenditori etc. In realtà il criterio di scelta delle aziende considerate, come anzidetto, era sostanzialmente relativo al successo finanziario, e lo studio dei due autori mancava del requisito fondamentale per condurre una valida comparazione, ovvero della misurabilità, della quantificazione degli elementi trovati in relazione al successo aziendale e in questo senso, va considerato come preliminare rispetto ad approfondimenti successivi.

L’idea proposta da Peters, in ogni caso, fin dagli esordi del suo percorso teorico-pratico, è quella di un modo rivoluzionario di concepire il Management, realizzandolo in vista del raggiungimento di un unico obiettivo: l’eccellenza, la perfezione, ovvero ciò che fa la differenza tra una gestione d’impresa tradizionale, improntata a criteri razionali, di tipo finanziario, ed una che tenga conto di alcuni fattori di natura diversa, ma ugualmente basilari per ottenere il successo aziendale. Di seguito alcuni di quelli individuati dall’autore:
- una gestione condotta con passione: Peters sottolinea la necessità di dare rilievo, nell’ambito delle dinamiche aziendali, alle relazioni di lavoro, ovvero, tradotto in termini pratici, al prendere in considerazione in maniera fattiva e proficua le opinioni delle proprie risorse umane e valorizzarle da parte dell’imprenditore, avendo anche presente la leadership come concetto-chiave, poiché essa significa implicitamente “…costruzione, crescita, libertà, profusione di energia….”, nonché le due strade, a suo avviso percorribili, al fine di creare e sostenere al lungo termine “una performance aziendale di livello superiore”; questo significa prendersi cura della propria clientela attraverso l’offerta di un servizio ineccepibile e dedicarsi costantemente all’innovazione;

- la qualità deve costituire l’elemento guida di una riuscita gestione aziendale, dove per essa si intenda l’operato dei manager che vivono l’attenzione a questo aspetto particolare con impegno, tenacia e soprattutto coerenza; è sbagliato dunque considerare i costi come le uniche variabili importanti per ottenere il successo aziendale.

- la MBWA o Management by walking around, ovvero l’enfatizzazione di un nuovo modo di attuare una leadership efficace, consistente nell’utilizzare anche gli spazi esterni a quelli deputati per le attività consuete di ufficio, al fine di estendere e migliorare i contatti, soprattutto tra le persone: è importante tenere riunioni in altri ambienti rispetto a quelli propri, conoscere personalmente gli individui se si ricopre una posizione di supervisore etc.

- l’innovazione deve essere incoraggiata, purché, suggerisce Peters, non la si confonda con i “miti” che la riguardano e tentano di identificarla in senso assoluto (vale a dire gli assunti per cui
1) una pianificazione strategica e supportata dalla tecnologia aumenta la probabilità di conseguire risultati certi;
2)descrizioni tecniche dettagliate e progetti di mercato studiati in modo capillare sono passi imprescindibili per avere successo;
3) il tempo e la riflessione garantiscono risultati creativi;
4)i clienti inevitabilmente propongono richieste datate, sempre le stesse), ma si lavori in sintonia a favore della sperimentazione, della creatività, dell’individualismo, preferibilmente in piccoli gruppi, al servizio di un’utenza lungimirante e all’avanguardia.

Quattro in sintesi, i principi indicati da Peters per l’attuazione concreta dell’eccellenza:
1. risultati eccellenti dal punto di vista finanziario non possono “esaurire” l’eccellenza di per sé, i risultati possono non essere duraturi e non è detto che derivino da un management di livello superiore;
2. ogni osservazione dovrebbe essere strettamente correlata alla proprie necessità e situazioni interne: occorre evitare sequenze di azioni inutili, che non danno valore aggiunto al proprio lavoro;
3. le metodologie relative all’organizzazione e al lavoro devono essere continuamente adattate e modificate in modo che “aderiscano” il più possibile ai processi, a vantaggio dell’offerta di un servizio sempre migliore;
4. ogni rimedio è valido fintanto che funziona: non bisogna legarsi in modo “servile” a un modus operandi e mantenerlo per sempre.


Nella sua pubblicazione più recente, dal titolo “Avere successo attraverso il caos”, Peters procede a una parziale revisione delle sue teorie, alla luce dei progressi tecnologici, nonché dell’aumento e relativa diversificazione della richiesta dei clienti sul mercato. Sulla scorta dell’esempio giapponese ( citato da Peters come vincente poiché proponente un modello di azienda orientata alla differenziazione, alla produzione di beni e servizi di alto valore aggiunto, cui contribuisce senza dubbio l’impiego di risorse umane altamente qualificate e flessibili, e ancora coerente, disponibile all’innovazione, consapevole del valore della qualità), lo scrittore rielabora il concetto di eccellenza, rinforzandone, per così dire, alcuni capisaldi, da tradurre in azioni propositive, del tipo:
- stimolare la forza lavoro, ovvero essere in grado di infondere negli individui “sensibilità” nei confronti di alcuni elementi che decretano il successo aziendale, quali la fidelizzazione del cliente, il perseguimento dell’innovazione, l’ottenimento della flessibilità attraverso la responsabilizzazione di tutti gli individui legati in qualche modo all’organizzazione;
- adottare strategie volte al cliente: poiché i mercati subiscono una frammentazione progressiva, le strategie da attuare puntano sull’offerta di prodotti e servizi di qualità, sull’originalità e l’internazionalizzazione, ma soprattutto sulla fidelizzazione del cliente, dove per essa si intenda il suo coinvolgimento in ogni aspetto decisionale dell’organizzazione dei processi, e l’estensione di questo tipo di interesse anche ai fornitori e ai distributori;
- coinvolgere il personale: Peters evidenzia questa operazione come cruciale e per essa intende fondamentalmente il provvedere a fornire alle persone cinque supporti di base: l’opportunità costante di essere ascoltati quando si esprimono le proprie opinioni; il reclutamento del personale da parte dell’azienda, sulla base dei valori e delle qualità desiderate; l’aggiornamento continuo della formazione e quindi delle competenze di ciascuno; l’offerta di incentivi economici, fondata su criteri di merito (il contributo positivo e il livello di performance di ciascuno).; la garanzia di un lavoro sicuro.

Ciascun enunciato solleva, come è ovvio, una serie di questioni correlate, che Peters sintetizza, indicando, per passi successivi e conseguenti l’uno all’altro, le domande più frequenti da porsi per risolvere i singoli problemi e i fattori fondamentali da tenere sotto controllo. Di seguito i principali:
-gli indicatori finanziari: la verifica del successo finanziario va condotta di pari passo con l’analisi della performance non finanziaria (come stiamo investendo il nostro capitale? Stiamo usando in modo proficuo il denaro degli azionisti? Stiamo gestendo bene costi e profitti?)
- le cause del fallimento: i problemi sono inevitabili: occorre affrontarli, purchè gradatamente (quali sono i motivi che ritardano il processo decisionale e quello operativo? Perché le persone producono meno di quanto dovrebbero? Che cosa prolunga controlli eccessivi e superflui? Chi o che cosa sono responsabili della mancanza di concentrazione sui valori e le attività fondamentali?)
- il sopraggiungere di difficoltà impreviste: occorre infrangere le regole, se si pensa che queste ostacolino il progresso aziendale; bisogna ancora aprirsi alla sperimentazione e accogliere il cambiamento, anzi agire come “portatori di cambiamento”
- la leadership: essere un buon leader significa non limitarsi al semplice ruolo di amministratore, bensì confrontarsi soprattutto con le persone e in questo senso: mostrarsi orgogliosi ed entusiasti del lavoro degli altri, incoraggiarli delegando ad essi parte della propria autorità, verificandone l’operato anche con visite a sorpresa, che sortiscano l’effetto non tanto di esercitare su di loro un controllo oppressivo, quanto piuttosto di dividerne il lavoro e l’entusiasmo;
- l’obiettivo della perfezione: può essere raggiunto assestando continuamente il livello della qualità del servizio attraverso l’impiego di metodologie qualitative e quantitative, mostrando particolare attenzione ai dettagli, assecondando i gusti e le esigenze del cliente con l’ascolto, la cortesia, la disponibilità.

La riflessione di Peters prosegue, negli anni a venire, con la caratteristica comune a tutti i suoi scritti , dell’estremizzazione di certe posizioni teoriche: dal concetto di trasformazione e cambiamento, per esempio, si passa a quello di “rivoluzione e follia” e l’autore è in grado di enumerare, anche in questo caso, alcune fasi da seguire in sequenza per creare una “crazy organisation”: eliminare il più possibile la burocrazia, sviluppare in ognuno un assetto mentale tale da farlo divenire un imprenditore indipendente, creare alleanze, potenziare la conoscenza attraverso il confronto aziendale stile “talk show”, creare esaltazione e divertimento etc. Per rendere efficace tale politica, le organizzazioni stesse devono suddividersi all’interno in tante piccole sottounità, specializzate anche nell’outsourcing e devono imporsi in modo indipendente e unico, con la loro personalità; lo stesso discorso vale per le persone, che verranno assunte per le loro capacità, da far evolvere eventualmente in modo da crearsi una rete di contatti che mettano anche in discussione le lealtà nei confronti dell’organizzazione.

Secondo quest’ottica , in sostanza, i Manager devono essere “provocati” in modo che abbandonino definitivamente metodi di lavoro stabiliti e perciò inefficaci, e anche i prodotti e i servizi non devono più essere esclusivamente “nuovi”, bensì originali, differenti, al fine di attirare i clienti che devono sentirsi in qualche modo sedotti dall’offerta. In questo senso è importante stabilire un “legame emotivo” tra il cliente e il prodotto/servizio offerto, in modo da instaurare un “marketing di relazioni” che costituisce l’arma vincente nella conquista della fedeltà altrui; tale ragionamento può e deve riguardare anche l’altro aspetto della questione, quello dei fornitori, nonché la possibilità di creare una partnership tra loro e i clienti.

Nonostante la radicalizzazione di certe sue idee sia stata spesso criticata, Peters mantiene comunque fede a nozioni di una certa assennatezza, tipo quella per cui solo una predisposizione costante all’azione e il far fronte coraggiosamente a eventuali insuccessi, può spingere in avanti le aziende.

Egli conclude che i manager, in questo tempo in continua trasformazione sotto tutti i punti di vista, dovrebbero perseguire il successo attuando un “costante disequilibrio”, da ottenersi attraverso il possesso di cinque virtù fondamentali: la profusione massima di energie nel proprio lavoro; l’azione; il farsi carico dei fallimenti; la reazione decisa a eventuali problemi; l’operazione di “tagli”, se necessaria.

Il messaggio dell’autore può in ogni caso essere sintetizzato come segue:
“è possibile ottenere risultati straordinari solo se si dispone ai vertici aziendali, di persone straordinarie".

LA BIOMIMICA - Giugno 2005

L’uomo, allo stesso modo in cui avviene per il resto degli organismi viventi, deve modificare il suo ambiente naturale circostante, per soddisfare i propri bisogni: alimentarsi, coprirsi, trovare rifugio, etc. Negli ultimi anni abbiamo scoperto che, alterando l’ambiente, abbiamo compromesso la nostra qualità di vita e quella delle future generazioni. Ed è per questo che siamo obbligati a cercare delle alternative per soddisfare le nostre esigenze senza danneggiare l’ambiente nel quale viviamo.

Una delle soluzioni possibili per ovviare a questo inconveniente, ovvero quello di uno sfruttamento sconsiderato e senza limiti del patrimonio naturale mondiale, potrebbe essere quella di generare e consumare una quantità minore di prodotti, ovvero circoscrivere le necessità dell’uomo. Nell’economia attuale questa non sembra una soluzione possibile, e forse neanche necessaria. Oppure, invece di produrre meno, potremmo farlo in una forma differente.

Come? Come lo fa la Natura!!!
Da mille di milioni di anni, la Natura è stata sufficientemente creativa da riuscire a soddisfare tutte le sue necessità, senza minacciare la sua esistenza. Piante, animali e microrganismi si sono dimostrati in grado di sopravvivere, evolversi ed espandersi, senza esaurire il combustibile fossile, contaminare il pianeta o compromettere il futuro delle prossime generazioni. L’uomo, essendo il più creativo delle specie viventi, è in condizioni di riuscire a fare questo e molto di più! Vogliamo essere in questo senso positivi e credere a questa affermazione.

La questione si pone in questi termini: dovremmo smettere di sfruttare la Natura ed iniziare ad imitarla. Dovremmo porci delle domande: se la Natura dovesse soddisfare queste necessità, come lo farebbe? Questa è la biomimica : “imitazione della vita”.

Il Prof. Jim Gordon ha creato per primo il termine “biomimetics” intendendolo come “la estrazione dalla Natura dei progetti di rigenerazione migliori”. Se volete avere maggiori informazioni sul tema potete visitare il sito della Università di Reading (Inghilterra) http://www.rdg.ac.uk/AcaDepts/cb/home.htm.

L’approccio Biomimico

Da sempre, la natura si è auto-curata, cioè ha provveduto a se stessa in maniera autosufficiente. Esistono in Natura dei “sistemi” capaci di porre rimedio a danni di maggiore o minore entità. Milioni di anni di evoluzione hanno conferito alla Natura l’abilità a mettere in atto dei meccanismi complessi ed efficienti: studiando questi meccanismi possiamo imparare nuovi modi di fare, di costruire materiali capaci di auto-rigenerarsi, seguendo il principio di cercare delle soluzioni ai problemi e ai bisogni degli esseri umani – e non solo – nonché imitando le strategie e i modelli usati dalla Natura.

La biomimica cerca risposte a domande specifiche, del tipo: come possiamo ottenere più alimenti? Approfittare meglio dell’energia? Costruire materiali nuovi? Mantenerci sani?

A tutte queste domande che hanno a che vedere con ognuno di noi indipendentemente dalla razza, religione, fede politica cui apparteniamo, o quant’altro, stanno cercando di rispondere gli ingegneri, i disegnatori e gli scienziati di tutto il mondo, con l’obiettivo di applicare queste conoscenze alla creazione di prodotti, sistemi di trasporto e strutture organizzative, tra le altre cose.

Di seguito riportiamo qualche esempio di innovazione riuscita avendo a disposizione la biomimica come punto di partenza.

- La Natura, come riesce a purificare l’acqua? Una società ha individuato la risposta nella soluzione della “filtrazione” delle terre pantanose: questo meccanismo assolutamente naturale è servito di ispirazione per un sistema di trattamento delle acque residue attraverso l’impiego dei bioreattori. Questi strumenti lavorano con comunità di organismi, che utilizzano i residui come nutrizione: nel processo di digestione dei residui si purifica l’acqua.

- La Natura, come mantiene le superfici pulite? Ricercatori universitari scoprirono che qualche organismo vegetale ha la capacità di “autopulirsi”. In particolare il loto, riesce ad avere le foglie sempre pulite, anche se piantato in suoli fangosi. Sulla superficie del loto ci sono dei minuscoli grani di cera che fanno sì che le particelle di sporcizia non possano aderire. Imitando la Natura, è nata anche un genere di pittura che al suo asciugarsi riesce ad avere una trama simile a quella della foglia del loto: le gocce di pioggia scivolano sulla superficie, rimovendo automaticamente la sporcizia.

- La Natura, come taglia le superficie più dure? Si è comprovato che i topi possono mordere con i loro denti il legno, il metallo e il cemento. Praticamente non esiste un materiale resistente a questi roditori. I denti dei ratti sono molto taglienti a causa della combinazione di materiali di diversi gradi di durezza, dai quali appunto sono composti. Diversamente dai denti umani, il duro smalto dei denti dei topi è talmente diminuito nel corso del processo evolutivo che oggi rimane solo un fine strato davanti. La sostanza dentale – più morbida – che si trova dietro è quella che si sciupa rodendo. Ma, dal momento che la durezza dello smalto permane, davanti si forma sempre un filo acuto. Questo principio fu applicato allo sviluppo di utensili per tagliare.

Gli esempi di questo tipo sono tanti e sono destinati a crescere sempre di più.

Il punto fondamentale è che la biomimica ci mostra che la soluzione non è agire di meno, ma agire in modo differente. Concretamente, occorre guardare ed utilizzare la natura diversamente: come una fonte di informazione, inspirazione ed innovazione, più che come un deposito di risorse.

Negli anni Trenta l’invenzione della chimica di sintesi ha ridotto notevolmente la nostra dipendenza dal regno della natura quale unica fonte da cui far derivare la produzione di farmaci. Negli ultimi anni, assistiamo a un’eccitante rinascita della fitoterapia, stimolata dalla scoperta di sostanze medicinali negli angoli più remoti del pianeta (Sud America e Africa per primi). E questa ricerca, nel corso degli ultimi decenni si è trasformata da elemento marginale a fenomeno di interesse generale a livello mondiale. Infatti, da più di tre miliardi e mezzo di anni la Natura crea degli straordinari composti chimici e le nuove tecnologie stanno facilitando la nostra capacità di scoprirli, studiarli, manipolarli e utilizzarli, come mai prima d’ora.

Ma la natura può contribuire alla guarigione anche nel suo ruolo terapeutico di ispirazione estetica e spirituale, nella vita della maggior parte degli esseri umani: la ”biomimica” infatti si dedica al suo studio, intendendola quale modello da cui trarre insegnamenti anche in campo medico.

L’idea è non pensare più alla Natura come un qualcosa dal quale possiamo estrarre il massimo possibile, bensì come un mondo dal quale possiamo imparare per operare meglio, a beneficio di tutti quanti noi.

Barbara Herreros

Charles Handy e gli stili manageriali - Giugno 2005

Quando penso alle persone che lavorano nelle organizzazioni ed a quali sono le peculiarità di un´azienda piuttosto che di un´altra, automaticamente mi torna in mente la suggestione del modello interpretativo delle figure professionali, della realtà aziendale, della cultura organizzativa e degli stili di management che insegna una persona, un professionista di nome Charles Handy.

Charles Handy, il guru inglese di management, ha confezionato in un testo - divenuto un classico della letteratura manageriale - una interessante riclassificazione degli stili di management e della cultura organizzativa con riferimenti alla mitologia greca. Il testo "Gods of Management: the changing world of organisations" riconduce a quattro dei (Giove, Apollo, Atena e Dioniso) gli stili manageriali ed i fondamenti delle differenti culture organizzative.

• La cultura di Giove (il club) identifica l´imprenditorialità innovativa e dinamica capace di creare e lanciare nuove iniziative attraverso la rapida presa di decisioni ed una comunicazione efficace. Gli stili manageriali sono marcatamente power-oriented, rifuggono la burocrazia e creano un´organizzazione con un basso livello di formalità. Giove rappresenta il carisma, una figura rispettata e temuta ed altamente seduttiva.

• La cultura di Apollo (il ruolo) rappresenta un´organizzazione ordinata e strutturata che opera con ruoli chiari ed una gerarchia definita razionalmente. Apollo, il dio dell´ordine, delle leggi e della burocrazia, diviene l´emblema della strategia fondata su una precisa definizione dei compiti e rifugge il culto della personalità di Giove.

• La cultura di Atena (il task) caratterizza un approccio molto differente dai precedenti in quanto l´enfasi è posta sul raggiungimento degli obiettivi attraverso la cultura del problem-solving ed in parte grazie alle esperienze maturate nel corso degli anni. Senza particolare entusiasmo nei confronti delle strutture organizzative e dei ruoli correlati, questo modello di cultura organizzativa fonda la sua convinzione sul fatto che il potere e l´influenza dipendono dalle expertise, dal raggiungimento degli obiettivi, dalla capacità di lavorare in team e dall´efficace partecipazione agli obiettivi dell´organizzazione. Atena la dea dell´operatività, rappresenta la giovane ed energetica guerriera ed identifica la protettrice degli esploratori e dei "navigatori".

• La cultura di Dioniso (l´individualismo) enfatizza la soggettività adombrando quindi l´importanza dell´organizzazione. Dioniso, il dio preferito dagli artisti e dai professionisti, rappresenta la valorizzazione delle competenze individuali piuttosto che la messa a punto di una macchina aziendale che, seppure efficace, è sicuramente anonima. In questo tipo di cultura organizzativa non vi è spazio per il capo in senso tradizionale ma le funzioni di guida vengono assegnate quasi spontaneamente dai membri dei gruppi di lavoro a quelle figure che si distinguono naturalmente per eccellenza professionale e spiccate doti umane.
Dioniso, il dio del vino e della musica, rappresenta l´ideologia dell´auto-motivazione e dell´autoorientamento esistenziale.

Anche se il testo analizza le articolazioni della realtà imprenditoriale in base all´importanza che ciascuna di queste divinità manageriali può assumere al suo interno, appare abbastanza evidente la contrapposizione fra Apollo e Dioniso. Charles Handy attinge direttamente da Nietzsche il quale, come è evidente, utilizza il modello apollineo e quello dionisiaco per articolare la riflessione filosofica sul sorgere della tragedia greca, per dare un´interpretazione della grecità e per fornire una visione del mondo.

Execution - Maggio 2005

La nostra strategia era perfetta, l’abbiamo esaminata da tutti i lati, abbiamo pianificato nei minimi dettagli, abbiamo analizzato la concorrenza, abbiamo fatto analisi di mercato, focus group, investito nel marketing, nella formazione, nella qualità. Eppure non siamo riusciti a raggiungere i risultati previsti. Questo accade molto spesso. Il problema sta nell’execution. Nel come abbiamo eseguito nel dettaglio le procedure operative e le attività necessarie per il conseguimento degli obiettivi. Quello che fa la differenza tra l’ottenimento del successo e il non raggiungimento degli obiettivi è la capacità di eseguire il piano.

Non è sufficiente enunciare un’idea o degli obiettivi e poi attendere che tutto divenga realtà.
E’ un po’ come l’MBO (Management By Objective): questo è l’obiettivo, ora raggiungetelo.

I risultati si raggiungono solo quando viene specificato in dettaglio come arrivare agli obiettivi desiderati, con quali risorse, con quali attività, con quali processi, con quali strumenti; e solo quando i risultati parziali vengono monitorati, verificati e revisionati in maniera continua.

Se non si procede in questo modo ci accorgeremo che i risultati non sono stati raggiunti solo quando non è troppo tardi. Non basta però monitorare, verificare e revisionare i risultati in maniera continua: è necessario identificare quali siano le informazioni da avere sempre a portata di mano. Anche se disponiamo di informazioni mensili, o addirittura quindicinali, ma limitate a bilancio e conto economico, questo non sarà sufficiente a farci prendere le decisioni necessarie e corrette. “Guidare l’impresa solo attraverso i dati economico/finanziari è come guidare l’auto guardando solo nello specchietto retrovisore.”

Questo vuol dire sviluppare la nostra strategia tenendo presente che se vogliamo raggiungere il successo finanziario sarà necessario curare in maniera opportuna il mercato, mentre per fornire benefici ai nostri clienti sarà necessario fare in modo che i nostri processi interni siano efficaci ed efficienti, ed infine per ottenere quest’ultimo risultato sarà bene curare che le risorse umane abbiano conoscenza, competenza e motivazione al massimo livello.

Costruire una mappa strategica secondo questa metodologia ci permetterà di avere sempre sottomano una visione complessiva della nostra strategia in maniera olistica e dettagliata, e soprattutto logica e gestibile.

Le quattro aree di attività dell’impresa (nel gergo della BSC si chiamano prospettive poiché indicano i quattro punti di vista da cui bisogna guardare all’impresa) devono poi essere dettagliate e misurate in rapporto bilanciato tra loro.

Per fare ciò, per costruire quindi una mappa strategica efficace, è bene, per ciascuna delle prospettive, porsi alcune domande.

Prospettiva finanziaria
- Che responsabilità abbiamo verso i nostri azionisti?
- Che cosa si aspettano da noi i nostri azionisti?
- Vogliono una crescita del fatturato, un miglioramento degli utili, una diminuzione dei costi, oppure queste tre cose insieme?

Prospettiva clienti
- Chi definiamo nostro cliente?
- Chi sono i nostri clienti chiave?
- Chi trae il maggior beneficio dai nostri prodotti/servizi?
- Chi paga per i nostri prodotti/servizi?
- Cosa si aspettano o vogliono da noi i nostri clienti? Qualità, prezzo, immagine,reputazione, efficienza, disponibilità, accessibilità?
- Come ci presentiamo ai nostri clienti? Qual è la nostra value proposition? Servizio eccellente (Customer Intimacy), prodotti o servizi innovativi (Product Leadership) oppure basso costo (Operational Excellence)?

Prospettiva Processi Interni
- Cosa dobbiamo fare bene internamente per soddisfare i clienti che abbiamo identificato nella prospettiva clienti?
- Quale fase dei nostri processi va resa più efficiente?
- Quale processo va migliorato per perseguire la nostra value proposition?

Prospettiva Apprendimento e Crescita delle Persone
- Abbiamo l’human capital per perseguire gli obiettivi definiti nelle prospettive processi interni e clienti? Conoscenze, competenze e motivazioni?
- Abbiamo information capital? Il nostro personale possiede tutte le informazioni necessarie per raggiungere gli obiettivi determinati?
- Abbiamo organization capital? Cultura d’impresa, knowledge, leadership, teamwork?

Alcune considerazioni sull’Analisi del Valore - Maggio 2005

Sino a qualche decina di anni fa un’impresa veniva valutata esclusivamente sulla base del bilancio e del conto economico: ancora oggi, in Italia, una banca concede fidi sulla base della cosiddetta “riclassificazione del conto economico” richiedendo infatti i bilanci degli ultimi tre anni.

Un altro strumento di valutazione era l’E.V.A. (Economic Value Added) risultato incorretto dopo un’analisi sulle prime 500 aziende classificate da Fortune (Harvard University – 1986): ancora oggi questo strumento viene proposto nelle nostre università ed alle nostre aziende.

Nello slang nordamericano l’Economia viene indicata come “dismal science” (dismal si traduce come tetra, fosca). Il termine dismal ha origine dagli scritti di Thomas Carlyle che metteva in discussione le teorie di Thomas Malthus sul rapporto causa effetto tra crescita esponenziale della popolazione mondiale e crescita lineare della disponibilità di risorse alimentari. Malthus non considerava il miglioramento della produttività.

A questo punto ritorna alla mente un simpatico aneddoto che circola nell’ambiente universitario internazionale:

Un professore di economia dell’Università di Cambridge decise, su insistenza dei propri figlioli, di acquistare un cucciolo. Il cane cresceva vivace e robusto ma, dopo appena otto settimane, il professore richiese al veterinario di sopprimerlo. Il professore controllava il peso e la lunghezza del cucciolo frequentemente ed aveva calcolato che il suo cane in un anno avrebbe raggiunto una tonnellata di peso e sarebbe stato lungo ventisei metri: il professore non avrebbe mai potuto sostenerne il mantenimento.

Un modello econometrico su cui si basa la “Business Simulation” è stato elaborato una quindicina di anni fa dall’Università di Groeningen (Netherland). Questo modello, nel calcolare l’Indice di prestazione tiene conto del profitto per azione, dell'indice di soddisfazione clienti, dell'indice di morale del personale. L’indice di prestazione inoltre non è assoluto ma relativo alle performance delle altre aziende concorrenti che si confrontano nello stesso mercato.

Questa metodologia deriva dagli argomenti riportati sopra e confortata da alcuni fatti abbastanza recenti che hanno riguardato l’evoluzione ed il perfezionamento dell’Analisi del Valore.

Per completezza di esposizione si riportano due argomenti fondamentali:

La teoria della Balanced Scorecard (Robert S. Kaplan e David P. Norton – Harvard Business School Press, Boston).

Questa teoria, ormai adottata internazionalmente da centinaia di grandi aziende ed organizzazioni e da pochi anni finalmente conosciuta anche in Italia, si basa su due concetti fondamentali.

bilancio e conto economico non danno il vero valore di una organizzazione poiché:

a. le misure finanziarie non sono congruenti con la realtà attuale;
b. sarebbe come guidare un veicolo guardando solo nello specchietto retrovisore;
c. tendono a creare dei bunker funzionali;
d. possono danneggiare la strategia a medio e lungo termine;
e. non sono rilevanti per molti livelli dell’organizzazione


l’economia sta cambiando, infatti:

“I knowledge workers oggi contano per un terzo della forza lavoro (negli Stati Uniti) e sono il doppio degli operai.” -Peter F. Drucker, The Economist, November 2001

In effetti gli asset intangibili vanno considerati in maniera importante nella misura del Valore dell’impresa, visto che “oggi” gli asset intangibili pesano per il 75% del valore dell’impresa. E per asset intangibili, che non compaiono nel bilancio né nel conto economico, si considerano il personale (conoscenza e competenza), il marchio, i brevetti, lo stile di management, le innovazioni, il portafoglio clienti, la soddisfazione clienti, eccetera.


Basilea 2

Il 26 Giugno 2004 è stato approvato il testo definitivo dell’accordo internazionale conosciuto come Basilea 2 che stabilisce i requisiti patrimoniali minimi per le banche in funzione dei rischi assunti.
Questo provvedimento ha una ricaduta rilevante sulla gestione delle aziende che accedono al credito bancario. L’istituto erogante dovrà classificare la qualità del credito concesso mediante un indicatore (rating = classe di merito creditizio) che misura la probabilità di insolvenza dell’azienda. E più bassa è tale probabilità, maggiore sarà la possibilità di ottenere il finanziamento e minore il suo costo.
Il provvedimento entrerà in vigore all’inizio del 2007.

Gli obiettivi dell’intervento sono funzionali alle indicazioni proposte e promosse dal Comitato di vigilanza per il credito, con sede a Basilea: il principale intento dell’azione è dunque quello di rilevare/ricercare le principali caratteristiche di struttura e funzionamento dell’impresa, collocare la stessa all’interno della mappa dei valori bancari e individuare le leve disponibili per migliorare il profilo competitivo e, conseguentemente, il rating creditizio.
A differenza di quanto accadeva nel passato, il nuovo Accordo formulato dal Comitato relaziona l’assegnazione del rating bancario ad un approccio multidimensionato che ha a che fare principalmente con:
· la capacità storica e prospettica dell’impresa di generare cassa, sufficiente a ripagare i debiti ed a sostenere altri eventuali emergenti fabbisogni;
· la struttura finanziaria e le probabilità che eventi imprevisti possano indebolire il margine di sicurezza costituito dal capitale aziendale;
· la valutazione dei business e della strategia competitiva adottata dall’impresa;
· la posizione dell’impresa rispetto al settore ed ai concorrenti di riferimento;
· l’organizzazione, i processi aziendali e la capacità del management di governare adeguatamente l’impresa
;
· la qualità e la tempestività delle informazioni che l’azienda trasferisce.

I risultati raccolti consentiranno all’impresa di riconoscere e comunicare più adeguatamente il proprio valore aziendale e di negoziare con maggiore consapevolezza la propria posizione con gli Istituti di credito, alla luce di informazioni in grado di descrivere l’impresa in maniera più completa e dettagliata.

L’analisi può essere descrittivamente riproposta in tre specifiche fasi:

FASE 1: valutazione degli aspetti quantitativi mediante analisi puntuale dei documenti economico-finanziari e patrimoniali, con relative riclassificazione e rettifiche;
FASE 2: valutazione del profilo andamentale mediante analisi dei dati di pregresso che connotano il rapporto dell’impresa con la banca di appartenenza e con la Centrale dei Rischi. Tale azione è specificamente diretta ad esaminare il comportamento dell’impresa con il sistema del credito (utilizzo affidamenti, insoluti, sconfinamenti, fonti di finanziamento utilizzate) e la presenza di elementi di tensione, di anomalie con lo stesso.
FASE 3: valutazione del profilo qualitativo mediante l’esplicitazione degli aspetti strategico/organizzativi, al fine di ricaduta degli stessi nelle esigenze finanziarie. L’azione è rivolta ad esaminare la strategia adottata dall’impresa, la coerenza tra la stessa e la struttura aziendale, i concorrenti e il settore, il posizionamento competitiva e le prospettive di crescita misurate sulla base dell’andamento del mercato e delle capacità di programmazione dell’impresa.

Nota: per ulteriori chiarimenti ed approfondimenti sugli argomenti proposti consultare http://www.geminieuropa.com