consulenza manageriale

lunedì, agosto 15, 2011

L’imprenditore

A norma dell'articolo 2082 del Codice Civile (Libro V, Titolo II, Capo I, Sezione I) si definisce imprenditore chi esercita professionalmente un'attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi.

Di conseguenza l'impresa, sotto il profilo giuridico, è un'attività economica professionalmente organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi.

Intorno al Cinquecento appaiono le prime citazioni del termine imprenditore. Con questo nome si indicava il capitano di ventura che ingaggiava truppe per servire principi e potenti. Solo nel Settecento la definizione d'imprenditore assume i connotati moderni (nel campo agricolo il proprietario terriero, in quello manifatturiero chi produceva merci da distribuire, in quello pubblico l'impresario che realizzava infrastrutture).
Nel 1803 nel suo Traité d'économie politique Jean Baptist Say descrisse il ruolo centrale dell’imprenditore nel mondo del capitale, della produzione, del commercio e del consumo e nel 1912 Joseph Schumpeter si occupò della funzione di innovazione nei fattori produttivi apportata dalla figura dell'imprenditore.

Al giorno d’oggi e secondo la norma:

· può essere imprenditore sia una persona fisica che una persona giuridica;

· per attività economica si intende ogni attività volta ad utilizzare i fattori produttivi (capitale, lavoro e materie prime) per ottenere un prodotto (bene o servizio):

· i beni e servizi che costituiscono il prodotto dell'impresa sono solo quelli che hanno un valore economico; i beni o servizi eventualmente prodotti dall'attività d'impresa privi di un valore di scambio non costituiscono "prodotto" in senso economico;

· la destinazione al mercato dei consumatori è fondamentale perché si possa parlare di attività imprenditoriale: l'attività imprenditoriale deve essere volta a soddisfare i bisogni altrui;

· sull'imprenditore ricade il rischio d'impresa ovvero il rischio del risultato economico dell'attività intrapresa.

L’impresa ha quindi un obiettivo (produzione o scambio di beni o servizi) e, sotto il profilo economico, deve essere condotta con criteri che prevedano una adeguata copertura dei costi con i ricavi.

Fin qui le regole e le norme (e alcuni cenni storici).

E’ possibile dire che siamo tutti imprenditori

Qualsiasi sia il nostro lavoro o quello che vogliamo fare, a meno che non ci piaccia solo eseguire alla lettera gli ordini che riceviamo; sia che siamo titolari di azienda o manager o quadri o anche semplici impiegati od operai, se abbiamo delle responsabilità e delle aspirazioni siamo imprenditori, anche se di un’impresa costituita solo da noi stessi.

Imprenditore è colui che opera in maniera totalmente differente da come operano i concorrenti. Imprenditore è colui che vede cose che gli altri non vedono. L’imprenditore è un visionario.

Passione, energia, entusiasmo e pulsione questo è quello che distingue l’imprenditore di successo da tutti gli altri.

Un imprenditore entra in un settore innovando nel senso di produrre o di distribuire in maniera diversa, aggiungendo, sottraendo o migliorando caratteristiche e benefici al prodotto o al servizio dei concorrenti.

Qualcuno ha detto: “se non sei in affari per soldi, per divertimento o per tutti e due che ci fai lì?”. In effetti la maggior parte degli imprenditori di successo ama il proprio lavoro.

Un antico proverbio giapponese recita: “la visione senza l’azione è sognare ad occhi aperti ma agire senza visione è un incubo”.

La domanda a cui quindi è necessario rispondere ed esaminare in maniera profonda è PERCHE’? Perchè abbiamo deciso di diventare imprenditori. Cosa ci ha spinto ad intraprendere un lavoro difficile e rischioso, che richiede tutta la nostra attenzione, che prende tutto il nostro tempo.

I perchè decidiamo d’intraprendere possono essere vari:

· non abbiamo più il “posto fisso”;

· siamo stanchi di lavorare per altri e vogliamo essere indipendenti;

· abbiamo vinto all’enalotto o ricevuto un’eredità;

· per caso;

· esiste un’azienda di famiglia;

· vogliamo trasformare un nostro interesse, un hobby, in impresa;

· abbiamo una buona idea.

Esistono quindi diverse ragioni per cui abbiamo deciso di intraprendere, ma dobbiamo andare più a fondo e scoprire i veri nostri obiettivi:

· vogliamo fare qualcosa per gli altri;

· il campo in cui operiamo è obsoleto e vediamo le cose in maniera differente;

· vogliamo migliorare le condizioni economiche della nostra famiglia;

· cerchiamo più soddisfazione nel lavoro;

· è qualcosa che abbiamo sempre sognato.

Avere sempre presenti i nostri obiettivi ci aiuterà a superare i momenti difficili.

Qualunque sia la ragione e gli obiettivi per cui abbiamo iniziato, il vero motivo è che abbiamo un certo talento o attitudine per la parte operativa dell’impresa: l’amministrazione, la commercializzazione, la produzione. La competenza in queste aree è ovviamente importante per iniziare, ma il fatto è che l’area operativa dell’impresa è solo una parte che costituisce il ciclo di vita dell’impresa stessa. Questo ciclo di vita in generale consiste in quattro fasi:

· start up è il vero e proprio inizio dell’impresa, oppure può essere l’introduzione di un nuovo prodotto o servizio, o una nuova locazione in un altro paese, o l’introduzione di un nuovo dipartimento o funzione;

· crescita è la fase in cui l’impresa si sviluppa attraverso le vendite, il personale, l’organizzazione, la struttura, la ricerca;

· continuità è la fase di consolidamento dell’impresa;

· riorganizzazione è la fase più critica: cambia il mercato, cambiano le leggi, cambia il rapporto con le risorse umane, il nostro prodotto o servizio diventa obsoleto.

Comprendere e superare le fasi del ciclo di vita dell’impresa presuppone possedere altre competenze che non sono solo quelle operative, ma è necessario avere competenze nella logistica, distribuzione, marketing, gestione delle risorse umane. La sinergia tra queste competenze ci permetterà di crescere e raggiungere gli obiettivi prefissi.

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Innestare conoscenze e competenze nelle MPMI

Le metafore con cui di solito ci si riferisce all’azienda sono tante, poiché è vasta, fin troppo, la letteratura sull’argomento. Tutti ne parlano, ne scrivono e teorizzano, tranne quelli che la vivono giorno per giorno e cercano di risolverne i problemi. La più interessante è forse la metafora che considera l’azienda come un albero: le radici, il tronco, i rami, le foglie e i frutti.



Quindi parliamo di innesto.

L'innesto è un metodo con il quale si ottiene un nuovo individuo saldando tra di loro due o più varietà di piante.

La tecnica dell'innesto consiste, nella pratica, nel far saldare la parte viva di una pianta su di un altra pianta provvista di radici.

La porzione di pianta che verrà ospitata andrà a costituire la parte superiore, del futuro individuo; il tronco, invece, costituirà la base che, con le proprie radici, procurerà il nutrimento e fungerà da sostegno.

Perchè le piante vengono innestate? I motivi sono assai vari, per esempio, si può innestare una pianta semplicemente per salvarla da morte certa, salvando la parte non colpita dalla malattia ed innestandola su un individuo sano, oppure per creare una nuova specie, per migliorare le caratteristiche di un determinato tipo di pianta, per consentire ad una pianta di poter sopravvivere fornendole migliori caratteristiche che si adattino all'ambiente e così via...

Insomma per dare vita ad un nuovo e migliore individuo.

Un innesto, per poter andare a buon fine, deve avvenire in particolari condizioni e deve essere eseguito secondo determinate modalità che, se non attuate, porterebbero quasi certamente alla morte delle due parti.

Per la buona riuscita di un innesto è infatti necessario che le due piante siano botanicamente affini, ma questo non vuol dire che debbano per forza appartenere alla stessa specie; un innesto può infatti essere fatto tra specie e varietà dello stesso genere così come tra generi diversi della stessa famiglia od anche tra piante appartenenti a famiglie diverse ma con le stesse caratteristiche esteriori e comportamentali.

A questo punto sorvoliamo sulle varie tecniche d’innesto. Anche se la terminologia è a tratti interessante e a volte curiosa e divertente. Diremo solo che esistono due tipi di innesto che si suddividono secondo le diverse modalità e tecniche, il primo è l'innesto a gemma in cui vengono utilizzate le gemme provenienti da rami, il secondo è invece il cosiddetto innesto a marza che avviene utilizzando un intera porzione di ramo dotata di numerose e particolari gemme.

L'innesto a gemma può essere: a toppa, a pezza o a tassello, ad anello o a zufolo. L'innesto a marza può invece essere: a spacco comune, a sperone, a cavallo, a spacco terminale.

Fuori di metafora, ora, stiamo parlando di azienda, tronco, su cui innestiamo un dirigente, gemma, portatore di conoscenza e competenza. Non stiamo parlando dell’inserimento in azienda di un consulente ma di un vero e proprio innesto in azienda di un dirigente esperto e competente, e questo vuol dire affrontare diversi problemi da risolvere con metodo. D’altra parte anche per un innesto in agricoltura è necessario operare con una certa metodologia per essere sicuri che esso vada a buon fine.

Si tratta quindi di preparare sia l’azienda a ricevere l’innesto sia il dirigente a diventare un buon innesto portatore di frutti in modo da creare un nuovo soggetto.

Il problema principale delle MPMI (micro, piccole e medie imprese) è certamente la crescita. Le MPMI hanno quindi il problema di migliorare la cultura aziendale, le strategie e l’operatività. Crescere quindi in qualità: le dimensioni cresceranno di conseguenza.

Il ragionamento è logico e molto semplice: se voglio far crescere il mio fatturato (l’unica cifra positiva, col segno più, nel mio conto economico, tutte le altre cifre hanno il segno meno) ho un’unica possibilità: far crescere la mia quota di mercato cioè essere più competitivo sul mio mercato, meglio ancora creare un nuovo mercato in cui essere, almeno all’inizio, il solo player. Per far crescere la mia quota di mercato avrò bisogno di modificare i miei processi interni, nel senso di renderli più efficienti (più produttività e quindi meno costi) e più efficaci (innovazione di prodotto e di processo). Di conseguenza l’attenzione va posta sui collaboratori che possono fornire queste prestazioni.

La ricerca e la selezione di collaboratori operativi è complessa perché il personale specializzato è sempre più difficile da trovare e perché questa categoria tende ad essere attratta dalle grandi imprese. Ma ancora più complesso e difficile risulta l’inserimento di dirigenti nelle MPMI, per motivi interni ed esterni. I motivi interni sono la scarsa disponibilità finanziaria e psicologica dell’assetto proprietario delle MPMI. Si tratta della resistenza, in generale, dell’imprenditore ad inserire nell’impresa in funzione dirigenziale persone estranee alla propria famiglia. Per quanto riguarda i motivi esterni si tratta di modificare l’atteggiamento di manager che, provenendo da grandi imprese, spesso sanno dire cosa fare e non sanno e/o non vogliono fare. Si tratta quindi in molti casi di dirigenti che propendono legittimamente verso la professione di consulenti classici, che resistono al coinvolgimento legato a risultati.

Della azienda e dei suoi problemi abbiamo già detto (vedi).

In sintesi i problemi delle MPMI si possono indicare in:

1) una cultura d'impresa spesso eccessivamente focalizzata sui soli fattori produttivi e non sempre adeguata a cogliere in maniera efficace gli
stimoli provenienti dall'esterno;

2) la difficoltà a disporre della capacità finanziaria atta a sostenere in modo adeguato la crescita.

Il problema della difficoltà di reperimento delle figure manageriali deriva dai costi elevati non sempre correlati alla dimensione del budget di spesa, ma anche alla circostanza che le piccole imprese, nella loro generalità, sono piuttosto restie ad inserire al proprio interno persone con funzioni dirigenziali, una cautela che ha origine, soprattutto, nella spiccata tendenza del piccolo imprenditore ad accentrare su di sè (o al massimo sui componenti della propria famiglia) tutte le principali funzioni direttive e di responsabilità.
La presenza di questo elemento, cioè la scarsa attenzione verso le figure manageriali rappresenta un limite decisivo della possibilità dell'impresa di svilupparsi e di sfruttare eventuali opportunità esterne favorevoli.

Il problema dell'accentramento imprenditoriale costituisce infatti in molte piccole imprese un rilevante fattore di debolezza, in quanto la natura dell'azienda fortemente centrata sulla figura dell'imprenditore o sulla sua famiglia costituisce un ostacolo estrinseco alle sue possibilità di sviluppo e sulle sue prospettive di competitività, in quanto determina una sensibile difficoltà nello sviluppo di forme di collaborazione strutturata che portino alla "creazione di sistemi e di network di imprese".

La piccola impresa nasce e si consolida normalmente sulla base di una profonda competenza relativa al prodotto ed al processo produttivo; in linea generale, è notevole anche la conoscenza del mercato di riferimento. Si manifestano invece particolarmente deboli le competenze più specificamente gestionali: in particolare, l'orientamento strategico, il marketing, l'organizzazione di vendita e commerciale, la gestione finanziaria, la logistica ed i processi di intelligence.

Si tratta in conclusione di operare su due obiettivi idonei a favorire un progetto di innesto.

1. Sensibilizzazione imprenditori e dirigenti MPMI

Attraverso meeting fisici e virtuali renderli consapevoli della necessità per le MPMI di utilizzare strumenti avanzati di organizzazione, marketing, risorse umane, amministrazione e ricerca e sviluppo. Sfatare il mito dell’impossibilità di adottare strumenti complessi adatti solo a grandi imprese.

2. Sensibilizzazione manager e professional

Attraverso meeting fisici e virtuali renderli consapevoli della necessità di adattare le proprie conoscenze ed esperienze alla esigenze delle MPMI, molto diverse da quelle delle grandi imprese. (Tras)formare Dirigenti e professional in imprenditori, rinunciando quindi al ruolo di impiegati o consulenti pagati ad ore e senza responsabilità per i risultati, in grado di utilizzare strumenti avanzati di organizzazione, marketing, risorse umane, amministrazione e ricerca e sviluppo adattandoli alla realtà delle MPMI.



Su questa vision si sta già costituendo un gruppo di piccoli imprenditori e professional esperti decisi a portare avanti in maniera concreta, e senza scopo di lucro, il progetto innesto.

Caosmanagement.it e gem4pmi.com saranno, per ora, gli strumenti di diffusione.

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I problemi delle MPMI (la prima M sta per microimprese)

Il problema principale delle MPMI (micro, piccole e medie imprese), e forse l’unico da cui derivano tutti gli altri problemi, è certamente la crescita. Questo non vuol dire solo aumento del fatturato e del numero di addetti, anche questo è un problema derivato. Le MPMI hanno piuttosto il problema di migliorare la cultura aziendale, le strategie e l’operatività. Crescere quindi in qualità: le dimensioni cresceranno di conseguenza.



Il ragionamento è logico e molto semplice: se voglio far crescere il mio fatturato (l’unica cifra positiva, col segno più, nel mio conto economico, tutte le altre cifre hanno il segno meno) ho un’unica possibilità: far crescere la mia quota di mercato cioè essere più competitivo sul mio mercato, meglio ancora creare un nuovo mercato in cui essere, almeno all’inizio, il solo player. Per far crescere la mia quota di mercato avrò bisogno di modificare i miei processi interni, nel senso di renderli più efficienti (più produttività e quindi meno costi) e più efficaci (innovazione di prodotto e di processo). Di conseguenza l’attenzione va posta sui collaboratori che possono fornire queste prestazioni.



La selezione e la gestione delle risorse umane è dunque alla base per la crescita culturale, strategica ed operativa delle MPMI. Ed è proprio questa la difficoltà più grande che incontrano le MPMI. D’altra parte è ormai dimostrato che il valore di un’impresa è in media costituito per l’80% dagli asset intangibili (marchio, portafoglio clienti, quota di mercato e, non ultimo, conoscenza, competenza, motivazione e coinvolgimento delle risorse umane a tutti i livelli). La ricerca e la selezione di collaboratori operativi è complessa perché il personale specializzato è sempre più difficile da trovare e perché questa categoria tende ad essere attratta dalle grandi imprese. Ma ancora più complesso e difficile risulta l’inserimento di dirigenti nelle MPMI, per motivi interni ed esterni. I motivi interni sono la scarsa disponibilità finanziaria e psicologica dell’assetto proprietario delle MPMI. Si tratta della resistenza, in generale, dell’imprenditore ad inserire nell’impresa in funzione dirigenziale persone estranee alla propria famiglia. Per quanto riguarda i motivi esterni si tratta di modificare l’atteggiamento di manager che, provenendo da grandi imprese, spesso sanno dire cosa fare e non sanno e/o non vogliono fare. Si tratta quindi in molti casi di dirigenti che propendono legittimamente verso la professione di consulenti classici, che resistono al coinvolgimento legato a risultati.



In generale nelle MPMI esiste una competenza approfondita per quello che riguarda il prodotto ed il processo produttivo ed una buona conoscenza del mercato di riferimento. Esistono d’altra parte frequentemente forti carenze per quello che riguarda l'orientamento strategico, il marketing, l'organizzazione di vendita e commerciale, la gestione finanziaria, la logistica, la ricerca e sviluppo e la gestione delle risorse umane.



Infine, altro ostacolo alla crescita delle MPMI, è la difficoltà di reperimento di risorse finanziarie. Questa difficoltà dipende sia dal fatto che le Banche italiane, non abbastanza evolute, concedono affidamenti solo sulla base delle disponibilità finanziarie delle MPMI, sia dalla incapacità delle MPMI di dimostrare reali opportunità imprenditoriali.



Ciò premesso elenchiamo parte dei problemi che possono essere risolti, o almeno avviati a soluzione, con l’inserimento nelle MPMI di dirigenti esperti e coinvolti.



Passaggio generazionale
Gestione passaggio generazionale
Selezione e reclutamento collaborator
Gestione e sviluppo del personale e dell’organizzazione
Sviluppare nuova filosofia aziendale
Riorganizzazione del sistema
Generare nuove idee
Risolvere conflitti e problemi personali, di coppia e di gruppo
Risolvere i conflitti nei team
Facilitare la mediazione e la negoziazione
Fornire strumenti al counselling e alla supervisione
Migliorare la qualità della comunicazione interna ed esterna
Analizzare le implicazioni di nuovi contratti e proporre correttivi più vantaggiosi
Rendere più chiare le relazioni tra fornitori, azienda e clienti
Accelerare sui programmi di espansione, ristrutturazione, innovazione
Analisi e allineamento strategico delle attività, pianificazione & monitoraggio
Espansione commerciale
Valutare il lancio di un nuovo prodotto
Gestire processo Internazionalizzazione
Facilitare l’apprendimento di competenze interculturali e di nuove lingue
Ottimizzazione della logistica
Esaminare gli effetti dell’outsourcing
Accesso a fondi nazionali, europei, etc.
Gestione partnership strategiche
Ottimizzazione mix/prezzi prodotti
Introduzione moderni strumenti di gestione
Migliorare processi e qualità
SviluppoWeb marketing e social media marketing, 2.0 e 3.0.

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Conflitti organizzativi

Volendo tentare una definizione del termine conflitto organizzativo si può dire che, in generale, è l’interferenza intenzionale di una persona o di un gruppo nel raggiungimento di determinati obiettivi da parte di altri individui o gruppi. Pertanto se gli obiettivi delle due controparti sono incompatibili fra loro, il successo dell’uno comporta l’insuccesso dell’altro. Il conflitto non va confuso con la competizione, dove ciascuna delle due parti mira al successo senza per questo contrastare, entrando in conflitto, l’altra parte in gioco. Nella competizione ciascuno fa del proprio meglio senza per questo ostacolare gli altri.
Nel caso degli ambienti organizzativi, le interdipendenze presenti all’interno delle aziende le rendono più frequentemente teatro di conflitti che non di competizioni. I conflitti si manifestano all’interno dei rapporti di potere: semplificando possiamo dire che il potere è la capacità di ottenere che le cose vengano fatte nel modo desiderato. Pertanto l’interferenza rappresentata dal conflitto può sussistere solo come esercizio del potere. L’autorità può essere vista come fonte di potere e, di conseguenza, di possibile conflitto.
E’ abbastanza facile individuare quali sono le aree dell’organizzazione dove è probabile si manifesti un conflitto o dove esso si trovi allo stato “potenziale”. Più difficile è prevederne l’insorgere effettivo, cioè sapere quando e come il conflitto si accenderà. Il conflitto opera in modo dinamico attraverso stadi successivi e la causa scatenante può spesso essere di lievissima entità.

Si possono distinguere due tipi di origini, le origini organizzative e gli stati di conflittualità pregressa.
La natura dei conflitti, invece, è da ricercarsi sia nello scontro fra personalità diverse, sia nella ricerca dinamica di assetti di potere all’interno dei livelli e delle funzioni in cui si articola la struttura. Più in generale, si può affermare che alla base dei conflitti organizzativi esistono talvolta condizioni oggettive di differente mentalità, cultura, approccio al processo decisionale dovute alla suddivisione di responsabilità.
Abbiamo avuto modo di dire che la scomposizione degli obiettivi generali in sotto-obiettivi funzionali fra enti che operano in condizioni di interdipendenza e sequenzalità del flusso, rappresenta il presupposto per una eventuale conflittualità nei rapporti organizzativi orizzontali.
Per fare un esempio, un obiettivo di fatturato e di redditività delle vendite chiama in causa le funzioni Acquisti (per il costo delle materie approvvigionate), Produzione (per la corretta ed efficiente gestione dei fattori tecnico-produttivi), Marketing (per la definizione del prodotto, la scelta dei canali e la fissazione del prezzo), Commerciale (per le vendite e la penetrazione operativa sui clienti, Amministrazione (per la politica dei pagamenti-incassi). Ogni responsabile di funzione può vedersi assegnare verticalmente gli obiettivi di funzione, ma è evidente che in condizioni di difficoltà o di imprevisti esterni la suddivisione dell’onere e del contributo risolutivo viene affidata alle capacità di trattativa e di relazione dei singoli responsabili.
Le basi e le chiavi di lettura per la comprensione e la soluzione dei conflitti possono essere ricercate in una serie ricorrente di fattori. Situazioni di potenziale conflitto possono manifestarsi ad esempio:
- nel dualismo esistente fra responsabili anziani, psicologicamente più pronti al mantenimento dello status quo, e responsabili giovani, più istintivamente favorevoli all’innovazione ed al cambiamento;
- fra organi di linea ed organi di staff per l’interpretazione del ruolo e la volontà di influenzare scelte ed attivare cambiamenti;
- fra responsabili di unita interne all’ambiente ( Produzione) ed unità di confine con l’esterno (Commerciale, Acquisti), portate ad operare e conservare stabilità i primi, propensi ad orientarsi in funzione delle condizioni esterne i secondi.

Il giudizio generalmente negativo che viene attribuito ai conflitti è dovuto alla natura storicamente distruttiva da essi manifestata. Da un punto di vista etico, il conflitto è il modo attraverso cui si attuano i cambiamenti e con cui i gruppi di minoranza manifestano la propria avversione e opposizione verso la maggioranza e lo status quo.
Positivamente percepiti, i conflitti sono presupposti per evidenziare i problemi e sollecitarne la soluzione attraverso un processo di cambiamento. Negativamente intesi, i conflitti sono fonte di inefficienza per mancanza di cooperazione nel processo di produzione economica e vanno soffocati in quanto fonte di ostilità e di instabilità interna.

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sabato, marzo 26, 2011

L’auto(im)mobile e Marchionne

“Se mettiamo una rana in una pentola d’acqua bollente, il suo istinto la fa saltare subito fuori poiché avverte il pericolo. Ma se la mettiamo in una pentola d’acqua tiepida, ed aumentiamo la temperatura lentamente fino all’ebollizione rimane lì ed alla fine muore bollita”.

L’apologo descrive quello che sta succedendo al mercato dell’auto, almeno nei paesi più avanzati e nelle città più densamente abitate. Ci si sta abituando lentamente ad una velocità di percorrenza sempre più bassa. E questo non solo in città affollate ma anche spesso sulle autostrade. A tutti sarà capitato di dover attendere tempi lunghi prima di poter uscire da un parcheggio o dal box per potere inserirsi nel lento flusso di macchine.

Prima o poi succederà che dopo aver avviato il motore non riusciremo a muoverci neppure di un metro fuori dal box o dal parcheggio. A questo punto la rana sarà bollita.





Ma di questo abbiamo già detto (v.car sharing).

Ci sono però altri fattori che dovrebbero essere presi in considerazione quando trattiamo il mercato dell’auto, prima che l’acqua raggiunga la temperatura di ebollizione.

Prima di tutto dovremo stabilire cosa acquista il mercato. Certamente non un insieme di pezzi meccanici: un motore, una carrozzeria, delle ruote, un cambio. Oltretutto si tratta di una tecnologia vecchia di almeno cent’anni. Acquistiamo quindi un servizio, la soddisfazione di bisogni e desideri: la possibilità (sempre più illusoria) di poterci trasferire in maniera indipendente, il poter mostrare la nostra opulenza, facendo il giro intorno alla fontana nella piazza principale del paese (quelli che comprano la Ferrari).

Altro fattore è il rapporto costi/benefici. E’ ormai dimostrato che l’uso privato di un’autovettura si limita in media al cinque per cento della vita dell’autovettura stessa; vale a dire più o meno un’ora al giorno in media. Questo vuol dire che teniamo la nostra auto immobile per 23 ore su 24, percorrendo più o meno una ventina di chilometri al giorno in media. Un semplice calcolo, che tenga conto del costo di acquisto, tassa di circolazione, ammortamento, gomme, manutenzione, assicurazione eccetera, dimostra che il costo a chilometro è assolutamente esorbitante. Senza considerare il costo del carburante sprecato col motore acceso mentre si è in coda.






Prima che la rana muoia bollita sarebbe quindi necessario guardare avanti e, da parte delle imprese produttrici, rivoluzionare la strategia, modificare la curva del valore (v. SOB).

In ogni caso il problema è complesso e sicuramente resistente a soluzioni semplici. Non si tratta quindi, come eravamo abituati a fare nel secolo scorso, di scomporlo in piccole parti, studiarle, applicare il diagramma causa/effetto, la lisca di pesce, il teorema di Pareto 20/80 eccetera. Si tratta invece di applicare il pensiero sistemico, guardare al problema complesso concentrandosi sulle relazioni tra gli elementi piuttosto che sui singoli elementi presi separatamente (v. Pensiero Sistemico).

La sola speranza è che in questo momento da qualche parte ci sia qualcuno che stia pensando alla soluzione del problema della mobilità individuale affrontandolo in maniera olistica (produzione, economia di scala, delocalizzazione eccetera). Questo qualcuno, per quello che sappiamo, non è certamente il Dottor Marchionne.
Sui media, e particolarmente su vari blog, si è aperto una grande discussione sull’operato del manager italo-canadese. Il dibattito si svolge principalmente sulla sua scarsa attitudine alla comunicazione. E questo è, a mio parere, un grande limite.

Alcuni anni fa uno studio di Harvard dimostrò che in media il valore di una impresa è costituito per l’ottanta per cento dal valore degli asset intangibili, costituito per la massima parte dalla motivazione, competenza, conoscenza e coinvolgimento del personale a tutti i livelli. Per quello che si nota sembrerebbe che questo sia stato completamente trascurato.

E’ banale dire che una buona strategia per diventare una execution di successo ha bisogno di essere portata avanti da un gruppo di persone competenti e coinvolte.
Dovere primario di ogni leader è provvedere a che ogni membro del proprio team porti a compimento la propria parte del piano aziendale, al fine di assicurare l’intero successo aziendale. Il coinvolgimento attivo di tutte le parti è fondamentale e il dialogo, franco e realistico deve costituire il cuore di questa filosofia.

In sintesi non è sufficiente tendere alla riduzione dei costi attraverso delocalizzazione, economia di scala e aumento della produttività. Sarà invece necessario seguire un ragionamento moderno basato sul fatto che se voglio migliorare il mio rendimento economico/finanziario dovrò servire meglio il mio mercato rispetto ai miei concorrenti, anzi l’ideale è riuscire a proporre al mercato una unique proposition, creando così un nuovo mercato, ma per ottenere questo risultato avrò bisogno di ricerca e sviluppo portati avanti da un team capace, competente ed altamente coinvolto.

Trascurare questi principi vuol dire non essere un buon manager, un buon leader, un buon imprenditore.

Consumo e consumismo

Consumo è cosa buona, consumismo è consumo patologico

Negli anni sessanta, l’economia degli Stati Uniti e dei paesi dell’Europa Occidentale attraversò un periodo di espansione. Questo ebbe, in parte, l’effetto di diminuire le diseguaglianze economiche e fece raggiungere ai paesi occidentali un buon grado di prosperità. Vi fu quindi un aumento della domanda dei beni di consumo (automobili, elettrodomestici, televisori, abbigliamento, etc…).

Il mantenimento di questa prosperità era strettamente legato alla continua espansione della domanda. I cittadini cominciarono a essere indotti, in primo luogo dalla pubblicità, ad acquistare sempre di più, anche usando il mezzo delle rate e delle cambiali. Molte persone, anche se non benestanti, iniziarono ad acquistare beni che non servivano più a soddisfare bisogni precisi e reali, ma il cui possesso li faceva sentire al passo con i tempi. Ebbe inizio il consumismo che dura tutt’oggi. La contestazione giovanile che si ebbe nel 1968 attaccava anche il consumismo; infatti i giovani lo definivano una società fondata solo su beni materiali.

Il consumismo fu aiutato dalla diffusione di strumenti di credito al consumo, tra cui la carta di credito, i quali consentivano di acquistare beni pur non avendo il denaro necessario per l’acquisto.

In questa fase del processo divenne di primaria importanza la distribuzione: e quindi la creazione di grandi magazzini, centri commerciali, la pubblicità. Quel che sul piano economico è consumo, diventava consumismo, fondato sul principio per il quale l’appagamento di un bisogno ne stimola il sorgere di uno nuovo.

Occorre per questo imparare a distinguere dagli altri i falsi bisogni. La maggior parte dei bisogni che oggi prevalgono, il bisogno di rilassarsi, di comportarsi e di consumare in accordo con gli annunci pubblicitari, di amare, di odiare ciò che gli altri amano e odiano, appartengono a questa categoria di falsi bisogni, i bisogni repressivi.. Può essere infatti che l’individuo trovi piacere nel soddisfare i propri bisogni, ma questa felicità non è una condizione che il consumismo accetti di perpetuare, onde evitare la staticità degli acquisti.

Alla base del consumismo vi è l’idea di sfornare continue novità in ogni campo facendo sì che le persone si abituino ad acquistare prodotti non per la loro necessità ma piuttosto per quello che questi rappresentano. Il contributo della pubblicità ha aggravato questo processo ormai presente nella società odierna; essa invoglia i potenziali consumatori ad acquistare i prodotti che vengono mostrati.

Citazioni sul consumismo.

…. ha trasformato i proletari e i sottoproletari italiani, sostanzialmente, in piccolo borghesi, divorati, per di più, dall’ansia economica di esserlo…. (Pier Paolo Pasolini)
Il cliente, il pubblico, è un bambino di undici anni, neppure tanto intelligente. (Silvio Berlusconi)

In effetti consumare è un aspetto naturale del vivere in società.

Vivere in società è una decisione naturale e morale. Si decide di vivere in società perché così possiamo soddisfare le nostre esigenze meglio di quanto faremmo da soli. Sin dall’origine della specie ci si è resi conto che benefici maggiori potevano essere ottenuti attraverso la cooperazione, la divisione del lavoro e l’interdipendenza. Uniti i nostri sforzi, anche i nostri interessi si intrecciano dando vita così al mercato, in cui avvengono gli scambi volontari mutuamente vantaggiosi. Il mercato è in effetti la più alta espressione di cooperazione e di interdipendenza degli uomini. Pensiamo a quante centinaia di migliaia di persone cooperano per mettere a nostra disposizione un computer o un’automobile da quelli che lavorano nelle varie miniere per provvedere alle materie prime agli impiegati degli uffici commerciali e marketing fino ai distributori ed ai concessionari. Tutte queste persone lavorano naturalmente per ricavarne un profitto. Finalmente qualcuno compra un computer o un’automobile per soddisfare un bisogno o un desiderio.

In pratica possiamo dire che consumiamo perché preferiamo godere dei frutti del lavoro di centinaia di migliaia di persone piuttosto che lavorare da soli per produrre qualcosa.

Tutto questo va bene se parliamo in generale di mercato e di consumo.

I “fanatici” del mercato dicono, con qualche ragione, che il mercato tende a rendere più omogenea la società e ad attenuarne le disparità, che sono stati la produzione ed il consumo di massa ad avvantaggiare i poveri e che se siamo tutti in grado di vivere circondati dalla tecnologia è perché da essa le persone traggono profitto e perché competizione e progresso tecnologico, a lungo andare, fanno sì che i prezzi tendano a scendere; e quindi prezzi più bassi permettono di fare più cose col denaro a disposizione al fine di soddisfare meglio le nostre esigenze. Dicono anche, forse esagerando un po’ e con qualche superficialità, che la voglia di soddisfare le proprie ambizioni personali è il carburante del progresso e dare libera espressione ai desideri delle persone per migliorare la loro vita è la sola vera giustizia sociale.

D’altra parte una volta gli acquisti si facevano per comperare il necessario (le tre elle: Latte, Letto e Lana). Ora che nei paesi più ricchi il necessario ce l’hanno in molti, gli acquisti si fanno per altri motivi: per fare bella figura, per riempire un vuoto, facendo quindi prevalere l’avere sull’essere (la quarta elle: Lusso)..

Il consumismo ha trasformato i cittadini in consumatori forzati di prodotti dall’utilità sempre più dubbia, dalla vita utile sempre più breve e dal grande spreco. Pensiamo al fatto che la nostra automobile rimane ferma (non mobile) in media per il 95% della sua vita.

E’ possibile affermare che la realtà è che il modello di “sviluppo” vigente è arrivato al capolinea. Solo ridefinendo gli stili di vita e riscoprendo l’individuo è possibile uscire rafforzati da questo momento storico.

Accettando queste ipotesi, alquanto catastrofiste, potremmo affermare che “consumatore” è una persona che non sceglie un prodotto perché costa meno, perché è più salutare, perché appartiene alla propria tradizione gastronomica; lo sceglie perché è indotto a farlo e non può farne a meno. E quindi il marketing, la promozione, la pubblicità sono il diavolo.

In effetti è forse venuto il momento di passare a un atteggiamento responsabile, consapevole e rispettoso verso l’ambiente in cui viviamo, un atteggiamento che si basi sulla semplicità volontaria.

Questo è il messaggio importante e decisivo per il nostro futuro che anche un momento difficile come l’attuale crisi economica può comunicarci.

E’ importante, a questo punto, rilevare il pericolo di cadere in qualche estremismo oppure nel fatale errore di voler risolvere problemi complessi con decisioni semplici.
Erich Fromm parla di “consumo ragionevole“, oggi si parla di “consumo sostenibile“.

Già nel 1936 Richard Gregg aveva formulato il concetto del “Voluntary Simplicity”.

Questo si basa su una volontaria semplicità nello stile di vita, tende ad un basso consumo (di beni di consumo, di energia) e preferisce valori quali l’indipendenza, l’autostima e una responsabilità ecologica. Si tratta quindi di privilegiare l’essere sull’avere.

Il punto ed il progetto

Il punto
Una domanda che spesso ci si sente rivolgere: “Manager si nasce o si diventa?” . Dello stesso tenore è “Imprenditore si nasce o si diventa?”. Le risposte a queste due domande sono spesso di una banalità sconcertante. Non staremo qui a dissertare dunque sul fatto che per le due categorie c’è bisogno di una certa attitudine, c’è bisogno poi di essere in un certo ambiente, c’è poi bisogno di conoscenza, competenza ed esperienza acquisibili più o meno facilmente, e così via concionando. Spesso poi si comincia con le definizioni partendo da wikipedia.

Cominciamo col dire che le due figure possono e devono essere assimilate: se un imprenditore non è anche un manager e se un manager non è anche un imprenditore sicuramente manca qualcosa. L’idea che l’imprenditore progetta e comanda ed il manager esegue è vecchia, antiquata, e fuorviante. Il concetto rigidamente gerarchico d’impresa è ampiamente superato. Un imprenditore deve essere anche capace di gestire ed ad un manager non può mancare la volontà di rischiare tipica dell’imprenditore. Un’impresa è un sistema complesso diverso da tutti gli altri sistemi/impresa. Non intendo quindi stabilire delle norme, ma solo suggerire dei processi derivanti da una lunga ed intensa esperienza nel campo della direzione d’impresa e della consulenza.

Ricordo perfettamente il mio primo incarico “manageriale”. Si trattava di gestire il laboratorio della facoltà d’Ingegneria Aeronautica dell’Università Federico II° di Napoli. Nel laboratorio si svolgevano studi ed esperienze al tunnel del vento a Mach3 (3 volte la velocità del suono). Mi sono sempre chiesto il motivo per cui il professor Luigi Napolitano mi avesse offerto quell’incarico, nonostante la mia non brillantissima carriera universitaria. Avevo superato il biennio in quasi quattro anni, alternando la preparazione degli esami con diverse altre attività: uno stage in Egitto presso un’impresa tessile di tre mesi che avevo allungato a sei mesi, dimostratore/venditore di lucidatrici domestiche Electrolux, fotografo, scenografo per una compagnia universitaria, assistente di un investigatore privato, artista pittore (avevo trovato un mercante che comprava tutto e non ho mai saputo cosa ne facesse), partecipazione ed animatore di eventi politico/culturali. Avevo superato gli esami del triennio ed ero pronto per la tesi quando ricevetti l’incarico. L’esperienza durò circa tre anni, fino alla laurea. Il professor Napolitano fu un grande maestro.

In effetti il primo incarico vero, con responsabilità di budget, lo ebbi dall’Olivetti: Servizio Tecnico Assistenza Clienti della filiale di Palermo. Non fu facile farmi accettare dalla trentina di persone, tra tecnici ed amministrativi, di cui ero responsabile. A Palermo appresi la differenza tra autorità ed autorevolezza. Furono sufficienti un paio di dimostrazioni di competenza per ottenere il rispetto e la stima del personale. Prima di assumere l’incarico avevo smontato e rimontato macchine da scrivere, da calcolo e contabili ed ero andato in giro tra Milano, Bologna, Torino, Genova trascinando una pesante valigia di attrezzi e cercando, sotto la guida di esperti capi officina di riparare macchine di clienti. Questa preparazione durò più di un anno. Allora si usava così: Oggi sembra che sia sufficiente una laurea, anche breve, o magari un master per assumere un incarico di responsabilità e non è neppure necessario sapere che Napoleone ha anche subito qualche sconfitta, con i risultati che sono sotto gli occhi di tutti. Ma di questo abbiamo già detto. Anche l’incarico a Londra per la British Olivetti per la gestione e lo sviluppo del Servizio Tecnico con ventiquattro filiali e circa duecentotrenta collaboratori tra amministrativi, capiofficina e tecnici fu una importante esperienza. L’incarico poi di Funzionario Vendita Sistemi presso la Sede di Rappresentanza di Roma, unico cliente Ministero delle Finanze, con la partecipazione al Progetto per l’Anagrafe Tributaria, mi convinse di essere pronto per spiccare il volo e lasciare la comodità di “mamma Olivetti”.

Ma la più importante esperienza di management, quella che in definitiva considero la più formativa si materializzò dopo aver deciso di lasciare l’Olivetti ed intraprendere la strada di consulente di direzione in proprio. Ero all’epoca un giovane manager/consulente che gestiva in Zambia, per conto di una società di Mediobanca il concessionario Olivetti, occupandomi nello stesso tempo dei paesi subsahariani come consulente dell’Olivetti stessa. Un sabato pomeriggio mi fu offerta la Direzione Generale di una industria di articolati ed autobotti: avrei preso possesso della carica il lunedì mattina. Si trattava della Lusaka Engineering Company, 1.400 persone, partecipazione 40% Stato Zambiano, 40% Mediobanca e 20% Fratelli Piacenza. La mia ultima esperienza di gestione era stata fino a quel momento la direzione dell’assistenza tecnica clienti per l’area di Londra (230 tra tecnici ed amministrativi). Ritenni quindi onesto dichiarare la mia esitazione ad accettare l’incarico per manifesta mancanza di esperienza. Ebbi molto coraggio: dimenticavo di dire che l’offerta mi fu fatta personalmente dal dottor Enrico Cuccia. Ed è da lui che ricevetti una lezione di management che non potrò mai dimenticare. L’uomo parlava pochissimo, ho avuto poi modo di incontrarlo un altro paio di volte in Africa ed a Milano. Egli scrisse su un foglio che ancora conservo quattro frasi: fatture emesse, fatture ricevute, pagamenti ricevuti e pagamenti effettuati. Mi girò il foglio perché lo leggessi e disse: “Guardi ingegnere lei lunedì va in fabbrica, per due settimane non prende nessuna decisione e tutte le sere si fa portare nel suo ufficio dal Direttore Amministrativo questi quattro numeri, alla fine delle due settimane riunisce tutti i direttori (non usava la parola manager) intorno al tavolo della Direzione, tiene i numeri in ordine davanti a sé e comincia a fare domande. Vedrà che dopo la riunione sarà in grado di prendere decisioni.” Seguii le istruzioni alla lettera, per fortuna avevo una segretaria inglese non molto attraente ma molto efficiente, e dopo due anni della mia gestione la Price Waterhouse potè stilare un report pieno di complimenti per il management.

Dopo altre esperienze di direzione d’impresa e di consulenza in America latina coronate da successo decisi che avevo bisogno di un anno sabbatico e tornai in Europa, in Inghilterra. Cercai a Londra di essere assunto come autista dei famosi bus a due piani. In fondo in Africa, oltre al conseguimento del brevetto di pilota, avevo appreso a guidare gli articolati sulla “hell run” tra Lusaka e Dar el Salam in Tanzania. Fui scartato all’esame teorico. Riuscii comunque ad essere assunto come venditore in un negozio di apparecchiature fotografiche Ricordo ancora l’espressione del padrone del negozio quando gli raccontai, su sua richiesta, cosa avevo fatto prima. L’esperienza, molto divertente e rilassante, di commesso di negozio durò poco più di un anno. Poi misi su una società di pubbliche relazioni e rappresentanza di importanti ditte di accessori per abbigliamento che durò circa sei anni. Avevamo grandi imprese italiane del livello di Ferragamo, Valentino, Gucci e grandi clienti inglesi del livello di Harrods, Marks and Spencer..

Negli ultimi venticinque anni trascorsi in Italia e con attività di consulenza e formazione manageriale in tutta Europa ed in America latina altre esperienze si sono accumulate. Dalla società di consulenza fondata a Roma sono passati decine di giovani consulenti a cui ho sempre cercato di trasferire conoscenza e spirito manageriale ed imprenditoriale.


Il progetto
Delle MPMI (la prima M sta per Micro) abbiamo già detto. Abbiamo anche pubblicato un, credo utile, ebook. Della complessità abbiamo già parlato. A questo proposito mi piace inserire alcuni concetti fondamentali:

“lo sviluppo del concetto di simultaneità; il concetto di velocità ed il rapporto spazio-tempo sono influenzati fortemente dall'impiego di macchine (automobili, treni ed aerei) che consentono spostamenti rapidi”.

Bohr (1885 - 1962) e Planck (1858 - 1947)
lo scienziato non è più in grado di definire regole stabili di funzionamento dell’universo e può solo cogliere ricorrenze statistiche e fare ipotesi basate sul calcolo delle probabilità.

Heisenberg (1901 - 1976)
"principio di indeterminazione"ogni campo di osservazione si modifica in rapporto all’osservatore.

Einstein
“spazio e tempo dipendono dai sistemi di riferimento prescelti e costituiscono una struttura unica”.

Poincarè (1854 - 1912),
“lo scienziato non è strumento di passiva registrazione di dati oggettivi, ma soggetto creativo e attivo nella costruzione della scienza”.

Bergson (1859 - 1941)
“siamo il prodotto non solo di tutti i momenti della nostra vita, ma degli aspetti nuovi che ogni momento acquista col passare del tempo, la conoscenza è un fatto oggettivo che si trasforma col tempo”.

Freud (1856 - 1939)
“ogni individuo ha una natura multipla, spesso imprevedibile, contraddittoria e quindi non sa chi è e non può pianificare la sua azione nel mondo”.


In principio furono i Greci……

Panta rei ovvero "tutto scorre, tutto si trasforma": è questo il famoso aforisma di Eraclito (VI sec. a.C.) che introduce nel pensiero filosofico classico il tema del dinamismo (divenire).

… il concetto di atomo risale a molto prima che avesse inizio la scienza moderna nel diciassettesimo secolo: esso ha avuto origine nell’antica filosofia greca e risale a quel primo periodo il concetto basilare del materialismo insegnato da Leucippo e da Democrito.

Secondo Anassimandro: " da dove infatti gli esseri hanno origine ivi hanno anche la distruzione secondo NECESSITA’ perché essi pagano l’uno all’altro la pena e l’espiazione dell’ingiustizia secondo l’ORDINE del tempo" (Giannantoni, " I Presocratici", testimonianze e frammenti).

L’idea che l’Universo sia ordinato ha origine nel pensiero Pre-socratico ed ancor prima nelle teogonie (nascita degli dei) di Esiodo, e trova la sua massima espressione nella filosofia di Pitagora.

Parmenide ed Eraclito, spostarono il problema dall'individuazione di una sostanza generale al problema dell'Essere e del Divenire.

Democrito, Epicuro e Lucrezio, avevano manifestato l'esigenza di ridurre entro uno schema comprensibile all'uomo, entro una struttura concettuale, l'immenso e il mutabile, l'eterno e il divenire.


L’Età Moderna

Gli autori/scienziati: Cartesio, Galileo, Bacone, Newton.
Da un punto di vista etico la Scienza moderna ha tentato disperatamente di decifrare i simboli del libro della natura scritto da Dio.

Gli autori/artisti: Laurence Sterne, Oscar Wilde, Proust, James Joyce, Italo Svevo, Monet, Cezanne, Dalì, Picasso, Braque, Jackson Pollock.



Dall’esperienza, dal trend verso l’artigianato (di questo parleremo un’altra volta), dalla complessità e dal concetto di caos, dalla necessità di crescita di manager ed imprenditori, dalla velocità delle trasformazioni sociali, organizzative, tecnologiche, economiche ed organizzative nasce il “progetto conoscenza”. Al momento gli strumenti utilizzati sono quattro:

un sito dedicato completamente alle MPMI;
un blog informativo ed aggiornato;
una rivista online: questa;
una sala riunioni virtuale per convegni, incontri e formazione online.


Il progetto conoscenza si propone di coinvolgere imprenditori e dirigenti di MPMI per renderli consapevoli della necessità di utilizzare strumenti e metodologie avanzate di organizzazione, marketing, risorse umane, amministrazione, ricerca e sviluppo, internazionalizzazione. Allo stesso tempo coinvolgere i consulenti di direzione per renderli consapevoli della necessità di adattare le proprie conoscenze ed esperienze alla esigenze delle MPMI, molto diverse da quelle delle grandi imprese. In pratica (tras)formare dirigenti e consulenti in imprenditori in grado di utilizzare strumenti avanzati di organizzazione, marketing, risorse umane, amministrazione e ricerca e sviluppo adattandoli alla realtà delle MPMI.

L’obiettivo è sfatare il mito dell’impossibilità di adottare strumenti complessi adatti solo a grandi imprese.

Il futuro è già cominciato

Una notizia buona e giusta: la nascita di “Rete Imprese Italia”. 2,6 milioni d’imprese rappresentate da Confartigianato, Confcommercio, Cna, Confesercenti e Casartigiani hanno deciso l’aggregazione. I numeri sono importanti: in Italia sono circa 4 milioni le MPMI (la prima M sta per Micro), pari al 94,7% delle aziende italiane, con circa 14 milioni di addetti, pari al 58% della forza lavoro italiana. La RIA si presenta quindi come una grande forza potenzialmente in grado di incidere sulla politica e le riforme indispensabili per la crescita, l’innovazione e la competitività della categoria.

Le richieste della RIA sono:

1. Riduzione aliquote IRPEF;
2. Ampliamento base imponibile;
3. Lotta all’evasione per ridurre l’IRAP;
4. Riduzione spesa pubblica grazie al Federalismo Fiscale;
5. Semplificazione e snellimento delle procedure;
6. Riforma degli ammortizzatori sociali;
7. Nuovi parametri di accesso al credito.

Tutte queste richieste, legittime, sono vitali per la sopravvivenza delle MPMI e per la maggior parte comprese ne “La Carta europea per le piccole imprese, creata su richie­sta del Consiglio europeo di Lisbona del 2000”. Ad ogni modo, se mi è permessa una osservazione, si tratta per la maggior parte di richieste, sia pur fondamentali, riguardanti l’area burocratico/amministrativa. L’accento è quindi prevalentemente messo sulla sopravvivenza dal punto di vista economico; nulla, almeno in maniera esplicita, si dice sul cambiamento e quindi sulla crescita e l’innovazione.

I fattori fondamentali che influenzano la vita delle imprese, di qualsiasi dimensione, sono quattro:

1. il mercato (clienti, fornitori, concorrenti);
2. il progresso tecnologico;
3. le leggi;
4. le relazioni con le risorse umane.

Tutti questi fattori cambiano continuamente e negli ultimi anni i cambiamenti hanno subito una vera e propria (r)evolution. In sintesi possiamo affermare che domani è già qui.

Robert Jungk pubblicò nel 1954 con Simon and Schuster un saggio intitolato “Tomorrow Is Already Here”, successivamente tradotto in italiano con l’improbabile titolo “Il futuro è già cominciato”. I miei ricordi risalgono ad almeno sette anni prima (1948). Andavo a scuola (prima media) a piedi e mi fermavo sempre davanti alla vetrina di un libraio ammirando un libro con questo titolo. Il libro aveva una copertina coloratissima con immagini, avveniristiche per l’epoca, di aerei, treni, navi, automobili. Non ricordo più come, ma riuscii a convincere mio padre che quello fosse un libro importante per la scuola e finalmente potei averlo tra le mani.La cosa che ricordo di quel libro, purtroppo non l’ho più, a parte la fantasmagorica copertina,è l’entusiasmo che mi trasmise e il desiderio di far parte di quel futuro. Ed è proprio questo desiderio la molla che spinge il vero imprenditore: non solo far parte del futuro ma costruire il proprio futuro.

La strada giusta per le MPMI è il cambiamento. E’ necessario cambiare il modo di approccio al mercato, mettersi al passo con il progresso tecnologico ed aggiornare la conoscenza. Le parole chiave sono dunque mercato, digitalizzazione e conoscenza.
Il mercato è completamente cambiato, i clienti sono più informati, più esigenti, hanno più scelte, i concorrenti sono più agguerriti. Per quanto riguarda il progresso tecnologico, Internet ha apportato una grande trasformazione nel sistema di comunicazione. Per quello che concerne la conoscenza, i sistemi di gestione hanno fatto dei grossi passi avanti: oggi non è più possibile gestire l’impresa, anche se individuale, guardando solo al conto economico ed al bilancio, questi sono solo il risultato della nostra attività nel campo del marketing, dei nostri processi interni e della capacità e competenza delle risorse umane.

L’introduzione del cambiamento in generale non è un grosso problema, in special modo per le MPMI che in genere sono molto flessibili e veloci nelle decisioni. Il problema sorge nella gestione del cambiamento. L’introduzione del cambiamento in maniera non corretta può essere deleteria per l’impresa, e questo non solo per la naturale resistenza dei collaboratori. La fase più importante nell’introduzione del cambiamento è quella della preparazione. Si tratta di comunicare il cambiamento a tutta l’impresa, fare in modo che tutti partecipino e comprendano in cosa consiste e le sue conseguenze. La partecipazione ed il coinvolgimento delle persone nella gestione del cambiamento è assolutamente vitale e quindi va perseguita con cura ed attenzione.

In conclusione mi permetto di dire che l’iniziativa “Rete Imprese Italia” è importante, ma se sarà solo limitata a perseguire obiettivi di tipo legislativo ed amministrativo non sarà di grande beneficio per le MPMI. Le parole chiave, lo ricordiamo ancora una volta, sono mercato, digitalizzazione e conoscenza. Se non ci si concentrerà sul cambiamento in queste tre aree fondamentali non avremo fatto un buon lavoro.

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Essere, sapere, saper fare

L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto da non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione ed apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.

(Italo Calvino, Le città invisibili) .


Imprenditore si nasce o si diventa? Quante volte ci siamo sentiti porre questa domanda. E quante volte abbiamo letto od ascoltato risposte spesso banali o analisi profonde ed astratte. Discorsi da bar dello sport. Sull’argomento penso di poter dire qualcosa di non banale, forte dell’esperienza di aver fondato diverse imprese in diversi paesi (Zambia, Ecuador, Inghilterra e in Italia più volte) e di aver contribuito alla fondazione di tante altre in qualità di consulente di direzione in diversi paesi ed in Italia più volte. Cominciamo subito col dire che è sicuro: imprenditore si diventa (ci si può costruire), se lo si vuole con determinazione, ed anche la volontà e la determinazione si possono costruire ed alimentare. Di quali siano le attitudini necessarie all’imprenditore avevamo già detto (vedi Caosmanagement n°.44). Si tratta in ogni caso di attitudini “costruibili” e “conseguibili” non necessariamente innate. L’elenco più gettonato è il seguente:

fiducia in se stessi;


ottimismo;


stabilità ed equilibrio emotivo;


capacità di organizzazione e pianificazione;


flessibilità;


propensione al rischio;


tenacia;


capacità relazionali e comunicative.

Sulla propensione al rischio starei molto attento e non posso fare a meno di citare una esperienza personale. Durante la mia residenza in Zambia come consulente per conto di Mediobanca fondai una piccola società di produzione cinematografica; si trattava praticamente di una “one man band”. Tra le varie attività della società, spot pubblicitari, vari documentari per enti statali, ottenni l’incarico di corrispondente di VisNews, una società della Reuters. Filmavo tutto quello che avveniva, inaugurazioni, cronaca, convegni politici, ed inviavo per corriere a Londra, 50 US$ per cinque minuti di raw material. Era l’inizio degli anni settanta ed in Angola c’era la guerra: tre missioni in zona di guerra. Non si trattava di propensione al rischio, era pura incoscienza. Con la mia pesante cinecamera Arriflex 16mm sulla spalla, le batterie legate ai fianchi ed il registratore Nagra appeso al collo mi sentivo come in una corazza invulnerabile con le pallottole che fischiavano intorno e le mine che scoppiavano vicino.

Essere
Quello che è molto importante per l’essere sono le motivazioni che ci spingono ad intraprendere una attività autonoma, per quanto lo possa essere l’attività di imprenditore. La motivazione è un elemento chiave perché è l’energia che stimola ad esercitare le capacità, ad affrontare gli ostacoli e ad impegnarsi per raggiungere gli obiettivi. La motivazione è tanto più forte, quanto più importante è il valore che si attribuisce all’obiettivo che si vuole raggiungere. La decisione di intraprendere, sia pure in solitario, può essere presa per caso, per un’idea che ci sembra fantastica, per voglia di cambiare, per voglia d’indipendenza, per curiosità, per spirito d’avventura, per necessità, per passione. Si tratta di motivazioni valide. Da una sola motivazione dobbiamo guardarci: se siamo solo e principalmente motivati dalla voglia di arricchirci. Questa non è una valida motivazione.

Sapere
Proviamo a digitare in qualsiasi motore di ricerca su internet “diventare imprenditore”. Troveremo più di 200.000 siti che promettono di dirci come si fa. Solo alcuni sono di una qualche utilità e possono darci qualche idea su cosa dobbiamo apprendere per costruire un’attività in proprio. Il 50% vogliono iscriverci a qualche corso di cui è prescritta la durata in ore ed i contenuti più vari. Ce ne sono addirittura alcuni che promettono di trasformarci in “Consulenti di Direzione” in 2 o 300 ore, col rischio di mettere sul mercato della consulenza giovani laureati, magari con master, che poi pretendono di indicare agli imprenditori, quelli veri, cosa fare. Un altro buon 40% ci descrive tutte le procedure burocratiche necessarie: lo statuto, la camera di commercio, la partita IVA, i contratti di lavoro, la tenuta dei libri contabili, il bilancio, il conto economico, fiscalità, finanziamenti, contributi, tutte questioni burocratiche e complicate che stanno, oltretutto, per essere semplificate come è già accaduto nella quasi totalità dei http://gem4pmi.com/d6/?q=content/leuropa-le-pmi-0 paesi europei . E’ molto importante non lasciarsi coinvolgere da questi aspetti burocratici del fare impresa. Si tratta invece di concentrarsi su quello che dovrà essere il nostro obiettivo strategico: cosa vogliamo, dobbiamo e possiamo fare per servire altri traendone anche noi soddisfazione.

Su qualcuno di questi siti ci sono delle indicazioni utili quali per esempio domande da farsi prima di cominciare ad intraprendere:

In cosa consiste il prodotto/servizio?


Quali caratteristiche lo rendono diverso?


È in grado di confrontarsi sul mercato? In che modo?


Quali risorse produttive, umane, finanziarie, tecnologiche e ambientali sono necessarie per la sua realizzazione? Come si pensa di reperirle?


Quali sono i potenziali clienti?


Quali bisogni (primari, secondari) va a soddisfare?


Quali sono i concorrenti?


Quali minacce possono rappresentare un problema per l’impresa?


Quali opportunità ed occasioni si possono sfruttare per l’avvio?


Quali strategie si pensa di adottare per realizzare gli obiettivi?


Qual è il tipo di struttura organizzativa?

Non sarà necessario sapere rispondere in maniera esauriente a tutte queste domande, ma è sicuramente importante documentarsi ed apprendere questi elementi per poter costruire un buon piano di fattibilità ed un buon piano di marketing. Sui sistemi per apprendere abbiamo già detto in un precedente numero della rivista. Possiamo solo aggiungere che per far crescere la nostra conoscenza, il nostro sapere, è assolutamente necessario studiare, leggere, essere prima di tutto curiosi e non accontentarsi della prima risposta. Non ci limiteremo ai manuali di management spesso obsoleti e che non tengono conto dei grandi cambiamenti avvenuti. Avremo occhi ed orecchie spalancati per tutto quello che avviene intorno a noi e nel mondo. E non ci farà certamente male se leggeremo anche letteratura e filosofia, c’è tanto da apprendere anche dall’arte. Quando mi si chiede consiglio sulla facoltà universitaria suggerisco sempre filosofia, se si ritiene proprio necessario iscriversi all’università: bisogna apprendere ad apprendere. Non fidiamoci di ricette o vademecum.

Saper fare
Il primo incarico in Olivetti fu la gestione dello STAC (Servizio Tecnico Assistenza Clienti) della filiale di Palermo, fra personale tecnico ed amministrativo ventisei persone. In uno dei primi giorni in pratica mi sparì un tecnico, al suo ritorno in tardo pomeriggio naturalmente gli chiesi spiegazioni. Mi raccontò di enormi difficoltà per la riparazione di una macchina contabile: aveva dovuto smontarne diverse parti per raggiungere una levetta da registrare. Simulammo insieme il difetto e gli mostrai come ripararlo in non più di 10 minuti. Da quel momento ricevetti il massimo rispetto e diventai il capo. Tutto questo grazie ai dodici mesi, dall’assunzione all’incarico, durante i quali avevo ricevuto formazione ed addestramento intensa: smontare macchine da scrivere e da calcolo fino ad ottenere tanti mucchi di vitine, levette, mollettine e poi rimontare il tutto perché funzionasse di nuovo, periodi di permanenza in varie filiali come semplice tecnico, affiancamento a diversi capiofficina, lezioni teorico/pratiche di basic management. Non basta sapere bisogna anche saper fare.

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Outsourcing: come applicarlo

Da più di trent'anni le imprese ricorrono all'outsourcing per risolvere alcuni dei loro problemi e per tentare di ridurre i costi di gestione; questa tendenza continua a crescere con l'ulteriore processo di terziarizzazione della nostra economia.

Il ricorso all'outsourcing, però, sta diventando sempre più importante per le aziende e da elemento di supporto si sta trasformando in fattore strategico di grande rilevanza, prevedendo l'esternalizzazione di un intero processo aziendale (Business Process Outsourcing).

La società che fornisce il servizio di outsourcing, non avrà più in gestione una singola attività, ma un intero processo, compresa la gestione finanziaria e delle risorse umane; questa modalità, il BPO, prevede la condivisione degli obiettivi e delle responsabilità, in questo modo il fornitore è elevato a livello di partner della società committente ed è spinto a lavorare meglio ed in maniera ancora più efficace.

L'outsourcing permette di:

ridurre costi;
sviluppare e controllare le strategie rapidamente;
esternalizzare le attività per incrementare l'efficacia;
snellire i processi interni.

L’outsourcing: moda o necessità?
L’outsourcing, contrazione dell’inglese “outside resourcing”, è in Italia, in molti casi una moda, in molti altri un pessimo servizio, in pochi casi un buon esempio di corretta gestione. Tuttavia, sarebbe estremamente sbagliato ritenere che non funzioni, ma è altrettanto doveroso dire che fino ad oggi, poche realtà hanno tratto un reale vantaggio nell’affidare all’esterno una attività o un servizio non strategico.

Credo che un po’ di confusione e di malinterpretazione ci sia stata sia da parte delle aziende, sia da parte delle strutture che hanno erogato il servizio. Intanto definiamo bene il concetto: Outsourcing vuol dire affidare un’attività non strategica in gestione esterna. Ovvero, tutte le attività di gestione svolte, per un periodo di tempo prolungato (diversi anni) e definito a livello contrattuale, da un operatore esterno all’azienda cliente.

E’ un accordo, stipulato tra committente e fornitore (outsourcer), in base al quale il primo appalta al secondo una funzione o un servizio, che in precedenza realizzava al proprio interno. I vantaggi che un’azienda otterrebbe, affidando quei servizi o funzioni non strategiche in outsourcing, sono molti e tutti significativi.

Ad esempio, esternalizzare alcuni servizi consente, alla azienda committente, di concentrarsi solo sul proprio "core business", cioè su tutte le attività in grado di generare direttamente profitti, lasciando all'outsourcer il compito di gestire le funzioni di supporto.

Permette all'azienda di fruire di un servizio con elevati standard qualitativi (perché erogato da specialisti) e a costi competitivi. Riduce l'esposizione finanziaria necessaria all'acquisto e all'adeguamento di attrezzature e tecnologia necessarie per lo svolgimento di tutte quelle attività considerate di supporto.

Negli anni 80, in Inghilterra, io ero lì, tutti parlavano dell’outsourcing come del nuovo mercato, a cui tutti dovevamo abituarci al più presto. Era quello il periodo peggiore per la Pubblica Amministrazione inglese che, costantemente sotto pressione per bassa qualità del servizio e costi gestionali altissimi, si interrogava su tutte le possibili soluzioni. Le soluzioni potevano essere di due tipi:

uno interno – con piani di aggiornamento e di miglioramento destinati ad elevare la qualità del servizio comprimendo il più possibile i costi gestionali;


uno esterno – affidando fuori alcuni servizi ritenuti non strategici.

Prevalse di gran lunga la seconda ipotesi, e quindi di li a poco assistemmo ad una radicale trasformazione dei Ministeri inglesi. Nacquero le “Next Steps Agencies” con il compito di gestire le funzioni operative dei Ministeri al fine di consentire ai Ministeri di concentrarsi meglio sulla formulazione delle politiche. Molti ministeri, vennero così scorporati affidando alle Agenzie il compito di ottenere risultati.

L’impressione avuta, è che sul piano dei risultati sussistono pesanti dubbi che queste agenzie abbiano comportato miglioramenti. Forse perché create in prevalenza con il personale che prima prestava servizio nell’amministrazione e quindi, ma è solo la mia impressione, poco abituati a ri-pensare costantemente il proprio lavoro col l’obiettivo del miglioramento continuo. Al contrario, alcune di esse hanno recepito l’idea del cambiamento e i Chef Executive, reclutati nel settore privato, hanno trasformato le modalità di gestione del lavoro, generando ragguardevoli guadagni di efficienza.

In Italia la situazione non è diversa. L’approccio all’outsourcing è, a mio parere, inadeguata. La delega ad un soggetto esterno, infatti, è uno strumento incredibilmente potente del quale bisogna conoscere le potenzialità ma anche i rischi. Non si può pensare infatti di gestire un progetto di outsourcing con le modalità secondo le quali si gestiscono gli abituali rapporti cliente-fornitore.

Forse il segreto per un buon Outsourcing è concepire il rapporto con tre soggetti coinvolti: azienda committente – terza parte – outsourcer. Le mie sensazioni ed esperienze in gestione aziendale mi inducono a ritenere possa essere profittevole concepire l’outsourcing con un terzo elemento, in sostanza con un “arbitro”. Un soggetto che preposto alla gestione ed alla regolamentazione del rapporto di Outsourcing abbia come obiettivo e come suo “core business” l’ottenimento degli obiettivi fissati contrattualmente.

E’ questo il punto focale dell’outsourcing: il raggiungimento di un obiettivo. Ed in questo, il ruolo dell’”arbitro” può essere estremamente importante. Nella definizione degli obiettivi, ad esempio, ed ancora, nella individuazione dei parametri da misurare per verificare l’effettivo raggiungimento dei risultati.

L’arbitro, che sia una società di consulenza o un consulente free lance, sa benissimo quanto sia importante il monitoraggio quotidiano per tenere in rotta la nave. Anche perché dal raggiungimento dell’obiettivo dipenderà, la soddisfazione dell’azienda committente e dell’outsourcer, ma anche, anzi soprattutto, la sua riconferma. Quindi, starà ben attento al raggiungimento dell’obiettivo. Nella fase di individuazione dell’obiettivo si gioca, in buona parte, la partita. Non serve a nessuno avere dei partner compiacenti e disposti a tutto pur di fatturare qualche milione. Lo spirito dell’azienda committente, la sua missione e tutto quello che ne consegue, deve essere a conoscenza dell’outsourcer e da questo accettato.

Se l’efficienza in ogni area fa parte della filosofia dell’azienda committente, la stessa efficienza si deve pretendere dall’outsourcer, al quale si delega l’esecuzione del servizio ma non la responsabilità nei confronti del cliente. E infatti, ricordiamocelo sempre, al nostro cliente non interessa chi svolge il servizio, ma solo che gli accordi presi con noi, e non con l’outsourcer, vengano rispettati, soddisfacendo così le proprie aspettative.

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Ancora MBO (Gestione per Obiettivi)

Nonostante le esortazioni di W. Eduards Deming ( 11° punto dei suoi famosi 14: Point 11(b) Eliminate management by objectives.) da più di sei lustri e la sua, di Deming, impeccabile dimostrazione sulla inconsistenza e dannosità della Gestione per Obiettivi (MBO) di Peter Drucker, ancora oggi se ne continua a parlare e, peggio, si continua a suggerire la sua applicazione ai nostri studenti di management ed ai nostri imprenditori.

Con il gusto tutto nordamericano è stato anche inventato un acronimo accattivante: l’obiettivo deve essere SMART, che sta per Specific, Measurable, Achievable, Relevant, Time-Specific. La parolina più interessante è Achievable (raggiungibile); e che vuol dire? Come fa un manager a decidere che quell’obiettivo (specifico, misurabile, rilevante ed attuale) è raggiungibile da parte di quella persona o di quel reparto in una particolare situazione? Come fa a sapere che il target non è troppo alto o troppo basso?

La dimostrazione di Deming è molto accurata ed è basata su una teoria che gli statistici conoscono molto bene e che purtroppo i manager usano molto poco o per niente: la “variation theory”. La teoria della variazione ha cinque concetti base:

Ogni variazione ha una causa.
Esistono due principali tipi di causa: cause comuni o cause di sistema, cause speciali o identificabili.
Distinguere in maniera corretta il tipo di causa che provoca una variazione è importante poiché l’azione da intraprendere da parte del management è diversa a seconda che si tratti di una causa comune o di sistema, o speciale.
L’azione da intraprendere quando si tratta di una causa speciale o eccezionale è molto semplice: la causa è identificabile, quindi si tratta di fare in modo che non si verifichi di nuovo se il suo effetto è negativo e fare in modo che sia presente di nuovo se il suo effetto è positivo.
La cosa è più complessa se si tratta di un avvenimento, negativo o positivo, conseguenza di una causa di sistema, quindi identificabile soltanto andando a fondo (quello che Deming chiama “in-depth knowledge”), utilizzando quindi strumenti come diagramma causa effetto, analisi di Pareto etc. e sperimentando modifiche al processo.

Non si tratta quindi di congratularsi con il venditore che ha raggiunto o superato il suo budget/obiettivo di vendita quel mese e punire quello che non lo ha raggiunto, ma si tratta di applicare i metodi statistici con conoscenza ed esperienza. Oltretutto è stato dimostrato che un premio in generale provoca una diminuzione della performance il mese successivo ed una punizione non produce sempre un miglioramento. E questo ci farà comprendere sempre meno quello che sta succedendo poiché produrrà sempre più instabilità e variazioni.

Rileggendo poi uno degli esempi che Deming riporta a favore della sua tesi sull’MBO ho ricordato una esperienza personale in Olivetti. Dopo i miei due incarichi di manager, come responsabile del Servizio Tecnico Assistenza Clienti in una filiale italiana (Palermo) e quindi per l’area Great London (23 filali), ed una permanenza negli USA di quattro mesi alla Underwood, sempre per conto del Servizio Tecnico, chiesi di passare alla divisione commerciale. Dopo una serie di corsi di formazione a Firenze, fui nominato Funzionario Vendita Sistemi presso la Sede di Rappresentanza in Piazza di Spagna a Roma e mi furono assegnati due Ministeri: Finanza e Difesa. Alla fine del primo mese notai che il capogruppo ispezionava le scrivanie di tutti i funzionari. Il fatto era che ciascun funzionario, e per ciascun cliente, aveva degli obiettivi di vendita mensili su cui veniva calcolato un bonus e lo scopo delle ispezioni era quello di evitare che i funzionari che avessero già raggiunto l’obiettivo del mese conservassero gli ordini in più per il mese successivo. Naturalmente bisognava non lasciare gli ordini nella scrivania. Era l’MBO ed è quello che Deming avrebbe poi definito come suboptimization.

Vediamo ora quali sono i più importanti difetti dell’MBO:

In generale i manager fissano gli obiettivi senza negoziarli;
I collaboratori cercano di negoziare obiettivi bassi;
Si da più importanza alla determinazione dell’obiettivo che al processo ed alle condizioni per raggiungerlo;
Si sottovaluta il contesto nel quale si fissa l’obiettivo;
Ciascun manager e divisione persegue il proprio obiettivo senza tener conto, e spesso a scapito o contro, gli obiettivi degli altri dipartimenti dell’azienda;
Non si stimola l’innovazione ed il cambiamento;
E’ rigido ed inflessibile;
E’ burocratico e time consuming;
Non sollecita e non favorisce la ricerca di soluzioni a problemi ed ostacoli al raggiungimento dell’obiettivo.
Enfatizza il rapporto gerarchico e non favorisce la collaborazione;
Attribuisce al management una mera funzione di controllo sulle persone e non sui processi.

In sintesi per dirlo con Deming: “Eliminate management by objectives”.
Vedi anche dello stesso autore.

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lunedì, dicembre 21, 2009

Apprendere (oggi) è facile

da Caosmanagement.it n°47 dicembre 2009

Tutti abbiamo la capacità di acquisire conoscenza ed apprendere nel corso della nostra vita. Non sembri retorico dire che ciascuno di noi ha la possibilità di crescere facendo della propria vita un percorso di apprendimento ed acquisendo nuova conoscenza in ogni momento.

In questi ultimi anni internet ci ha reso molto più facile apprendere, iniziando un percorso che nell’opinione di molti potrà presto provocare una trasformazione radicale dell’apprendimento formale (ginnasio, liceo, università), fino alla abolizione della scuola così come la intendiamo oggi. Dell’MBA abbiamo già detto.

Riferendoci ora ad un uso “utilitaristico” dell’apprendimento ci rivolgeremo a coloro che hanno la necessità di conoscere più cose per crescere e progredire nella propria attività o per affrontare problemi nuovi o iniziare una nuova attività.
Le metodologie classiche per l’apprendimento sono oggi così definite:

Apprendere lavorando (training on the job): necessario affiancamento alle persone in fase di inserimento, di cambiamento nella forma di lavorare, di nuove implementazioni, di innovazione dei processi.


Formazione in aula: occasione d’incontro non gerarchico delle persone che lavorano con uno scopo specifico, programmato, interattivo e valutato nel tempo. I temi possono essere diversi come diverse possono essere le tecniche usate in aula.


Formazione a distanza: può essere utilizzata per coinvolgere più persone
contemporaneamente, con l’utilizzazione di metodologie diverse come la practice simulation, Business Games e Problem Based Learning.

Le prime due sono ben note e presentano diversi vantaggi e molti svantaggi. Della terza metodologia diremo più avanti.
Vediamo ora quali sono le fasi da seguire per acquisire conoscenza via internet in maniera efficace ed efficiente.

Inserire in un motore di ricerca la parola o la frase che indichi l’argomento che vogliamo conoscere.
Leggere dai diversi punti di vista cercando prima di tutto su giornali o riviste accademiche o scientifiche on-line e dai blog.
Controllare accuratamente quello che abbiamo trovato tenendo presente che non sempre quello che viene pubblicato è la verità.
Partecipare a forum di discussione per condividere quello che abbiamo appreso.

Sulla formazione a distanza abbiamo già avuto modo di scrivere sui precedenti numeri di questa rivista. Ce ne siamo occupati teoricamente e praticamente sin dai suoi esordi fin dalla seconda metà degli anni ’90. All’inizio si trattava solo di utilizzare il web come un nuovo supporto di un libro di esercizi con in fondo le soluzioni. Un procedimento quindi scomodo e noioso.

La situazione oggi è notevolmente cambiata.

Ecco dunque alcuni motivi per cui la formazione a distanza diventa sempre più interessante.

1. Grande scelta
Esistono ora online molti programmi tra cui scegliere.
2. Flessibilità
Permette di apprendere senza trascurare altri impegni.
3. Opportunità di Networking
E’ possible entrare in contatto con altri studenti.
4. Tempi
Molti programmi online permettono di studiare organizzando il proprio tempo.
5. Risparmio
La formazione online costa meno di altre tipologie di formazione.
6. Nessuna necessità di muoversi
Nessuno spreco di tempo e costi di trasporto.
7. Contenuti di alto livello
Alcuni programmi online permettono il contatto diretto con professori di alto livello accademico o di esperienza.
8. Efficacia
Recenti studi hanno permesso di constatare che lo studio online è più efficace di
quello in una aula tradizionale.
9. Contatto
Alcuni programmi online permettono il contatto diretto e personale con i docenti.

In sintesi la formazione a distanza permette ai partecipanti di gestire il proprio tempo in maniera molto più completa che la partecipazione ad un tradizionale corso in aula e permette soprattutto un contatto diretto con i docenti.

Per quanto concerne le metodologie più efficaci adoperate nella formazione a distanza abbiamo citato practice simulation e Business Games .

L’altra metodologia interessante e che fornisce grandi risultati è il Problem Based Learning (PBL).

Questa metodologia si basa sulla multidisciplinarietà: agli studenti viene sottoposto un problema concreto da risolvere acquisendo, con l’assistenza del docente, tutte le conoscenze necessarie.

Ma di questo diremo in un prossimo articolo.

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giovedì, dicembre 03, 2009

Scrap the MBA

da CaosManagement n.43

E’ giunto il momento di abolire i Master in Business Administration?

Per amor di patria non parleremo delle scuole dei manager italiani, da cui vengono fuori personaggi che non sanno che Napoleone ha perso a Waterloo o che la Libia è stata una colonia dell’Italia, che spesso non sanno distinguere tra ha (verbo avere) ed a (preposizione), che applaudono entusiasti se qualcuno gli dice che la crisi non esiste ed è solo un fatto psicologico, che sembrano fatti con lo stampino, la testa rasata, con la loro arroganza, il loro vestitino blu, la cravatta di marinelli ed il loro telefonino ultima moda da usare con fragore nella prima classe della freccia rossa.

Parleremo invece della importante discussione che si sta svolgendo a livello internazionale sugli MBA, i Master in Business Administration.
E’ nato anche un nuovo termine: “MBA clone” (Dan Herman). Molti manager frequentano gli stessi corsi, studiano sugli stessi libri, leggono gli stessi giornali e le stesse riviste, partecipano agli stessi convegni ed assistono alle stesse conferenze. In questo modo assumono lo stesso atteggiamento e lo stesso vocabolario nei confronti del business. Diventano degli MBA clone. Naturalmente non tutti diventano MBA clone e Dan Herman propone un questionario per verificare se lo si è diventato ed una serie di suggerimenti per “declonizzarsi”. Alcuni suggerimenti sono assolutamente accettabili, quali per esempio quello di abbandonare la strategia a lungo termine, di non confondere obiettivi e strategia, altri andrebbero discussi in maniera più approfondita come quello di abbandonare la market segmentation per la contextual segmentation oppure rinunciare alla vision. Henry Mintzberg critica aspramente l’MBA. Riportiamo qui parte di una recente intervista alla CNN:

CNN: Quale dovrebbe essere l'obiettivo dell’MBA?

MINTZBERG: Creare migliori manager che creino migliori organizzazioni che creino un mondo migliore.

CNN: Il management può essere insegnato?

MINTZBERG: No, è possibile migliorare la qualità o le caratteristiche dei manager, non è possibile creare i manager in aula..... Quello che non si può fare è insegnare la gestione a qualcuno che non è un manager, come non si può insegnare un intervento chirurgico a chi non è un chirurgo. .............. Quello che ho contro gli MBA è il fatto che vieni fuori da un programma di MBA di due anni, non avendo mai fatto il manager, e presumi che sei pronto per assumere responsabilità di manager. Non solo lo presumi, ma è la stessa scuola che te lo assicura, e questo è profondamente sbagliato. ........ io considero la gestione, il management, come arte, artigianato e scienza. Si tratta di una pratica che si basa su arte, artigianato e scienza e c'è un sacco di artigianato, nel senso di esperienza, che comporta intuizione, creatività, visione e vi è l'uso della scienza, della tecnica e dell’analisi. Ma i programmi MBA sono così orientati prevalentemente verso la parte analitica che vengono fuori quelli che io chiamo “calculating managers” e penso che stanno causando problemi ovunque................................... Nelle scuole di management si da molta importanza ai case study. Si basano sul fatto di leggere una ventina di pagine di un’impresa di cui probabilmente non hai sentito mai parlare ed il giorno dopo si va in aula a parlarne. Così si stanno formando persone che pensano: datemi una ventina di pagine di relazione ed io vi do la strategia. ...............non vi è alcuna esperienza diretta, nessuno ha mai incontrato il cliente, non è mai stato nelle fabbriche, non conosce i prodotti, nessuno sa nulla. E sono tutti a parlare di ciò che la società è tenuta a fare, perché hanno trascorso un paio d'ore la sera prima a leggere il caso....................

Ray Williams in un articolo per il Sounding Board, rivista del Vancouver Board of Trade, rileva che per la maggior parte i programmi delle scuole di business sono orientati alla teoria ed utilizzano gli strumenti tradizionali: case studies, lezioni, film e discussioni. Il problema, secondo Ray Williams, è che i docenti di queste scuole sono scelti non sulla base della loro esperienza di leader o manager, ma sulla base delle ricerche pubblicate.
Kelly Holland in un articolo sul New York Times rileva che le scuole di business sono troppo teoriche e con pochi contatti con il mondo reale, agli studenti si insegna come affrontare problemi complessi con soluzioni semplici e rapide, l’unico obiettivo è quello di massimizzare il valore delle azioni, senza nessun riferimento all’etica ed ai problem sociali.
Anche Rakesh Khurana pensa che le scuole di business formano dei manager il cui unico obiettivo è quello di far crescere il valore della azioni e che, quindi, sono dei semplici agenti della proprietà, con tutto quello che deriva da questa idea.
In un articolo nel London Times, Philip Broughton è molto più feroce ed afferma che se Robespierre rinascesse e cercasse persone da ghigliottinare potrebbe cominciare da quelli che dopo il proprio nome inseriscono la sigla MBA: questa categoria di banchieri, finanzieri e consulenti distruttori di valore ha fatto molti più danni di qualsiasi altra categoria di persone. Broughton rileva anche che se facciamo una lista dei più importanti imprenditori nella storia recente, da Larry Page e Sergey Brin di Google, Bill Gates di Microsoft, a Michael Dell, Richard Branson, Lakshmi Mittal, non troviamo un solo MBA. Se invece guardiamo dalla Royal Bank of Scotland a Merrill Lynch, da HBOS a Lehman Brothers, troviamo le impronte digitali di tanti MBA.

Lynda Gratton prevede, molto ottimisticamente, che saranno gli studenti a provocare il cambiamento nelle business schools. La sua opinione è che coloro che si iscrivono a queste scuole o che affrontano un MBA sono oggi a conoscenza, per fonti fuori dall’ambiente accademico, che esistono altri modelli di impresa, più egualitari e che esistono quelli che lei indica come “social entrepreneurs”.

Quest’ultima nota di ottimismo si basa sul fatto che la diffusione ed il facile accesso alle informazioni che riguardano le imprese è ormai un fatto compiuto nei paesi in cui esiste una trasparenza e dove i media sono effettivamente liberi da vincoli politici o addirittura di ownership. Speriamo che questo possa avvenire anche da noi.

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L’imprenditore

da CaosManagement n.44

A norma dell'articolo 2082 del Codice Civile (Libro V, Titolo II, Capo I, Sezione I) si definisce imprenditore chi esercita professionalmente un'attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi.

Di conseguenza l'impresa, sotto il profilo giuridico, è un'attività economica professionalmente organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi.
Intorno al Cinquecento appaiono le prime citazioni del termine imprenditore. Con questo nome si indicava il capitano di ventura che ingaggiava truppe per servire principi e potenti. Solo nel Settecento la definizione d'imprenditore assume i connotati moderni (nel campo agricolo il proprietario terriero, in quello manifatturiero chi produceva merci da distribuire, in quello pubblico l'impresario che realizzava infrastrutture). Nel 1803 nel suo Traité d'économie politique Jean Baptist Say descrisse il ruolo centrale dell’imprenditore nel mondo del capitale, della produzione, del commercio e del consumo e nel 1912 Joseph Schumpeter si occupò della funzione di innovazione nei fattori produttivi apportata dalla figura dell'imprenditore.

Al giorno d’oggi e secondo la norma:

può essere imprenditore sia una persona fisica che una persona giuridica;
per attività economica si intende ogni attività volta ad utilizzare i fattori produttivi (capitale, lavoro e materie prime) per ottenere un prodotto (bene o servizio):
i beni e servizi che costituiscono il prodotto dell'impresa sono solo quelli che hanno un valore economico; i beni o servizi eventualmente prodotti dall'attività d'impresa privi di un valore di scambio non costituiscono "prodotto" in senso economico;
la destinazione al mercato dei consumatori è fondamentale perché si possa parlare di attività imprenditoriale: l'attività imprenditoriale deve essere volta a soddisfare i bisogni altrui;
sull'imprenditore ricade il rischio d'impresa ovvero il rischio del risultato economico dell'attività intrapresa.

L’impresa ha quindi un obiettivo (produzione o scambio di beni o servizi) e, sotto il profilo economico, deve essere condotta con criteri che prevedano una adeguata copertura dei costi con i ricavi.

Fin qui le regole e le norme (e alcuni cenni storici).

E’ possibile dire che siamo tutti imprenditori

Qualsiasi sia il nostro lavoro o quello che vogliamo fare, a meno che non ci piaccia solo eseguire alla lettera gli ordini che riceviamo; sia che siamo titolari di azienda o manager o quadri o anche semplici impiegati od operai, se abbiamo delle responsabilità e delle aspirazioni siamo imprenditori, anche se di un’impresa costituita solo da noi stessi.

Imprenditore è colui che opera in maniera totalmente differente da come operano i concorrenti. Imprenditore è colui che vede cose che gli altri non vedono. L’imprenditore è un visionario.

Passione, energia, entusiasmo e pulsione questo è quello che distingue l’imprenditore di successo da tutti gli altri.

Un imprenditore entra in un settore innovando nel senso di produrre o di distribuire in maniera diversa, aggiungendo, sottraendo o migliorando caratteristiche e benefici al prodotto o al servizio dei concorrenti.

Qualcuno ha detto: “se non sei in affari per soldi, per divertimento o per tutti e due che ci fai lì?”. In effetti la maggior parte degli imprenditori di successo ama il proprio lavoro.
Un antico proverbio giapponese recita: “la visione senza l’azione è sognare ad occhi aperti ma agire senza visione è un incubo”.

La domanda a cui quindi è necessario rispondere ed esaminare in maniera profonda è PERCHE’? Perché abbiamo deciso di diventare imprenditori. Cosa ci ha spinto ad intraprendere un lavoro difficile e rischioso, che richiede tutta la nostra attenzione, che prende tutto il nostro tempo.

I perché decidiamo d’intraprendere possono essere vari:



non abbiamo più il “posto fisso”;
siamo stanchi di lavorare per altri e vogliamo essere indipendenti;
abbiamo vinto all’enalotto o ricevuto un’eredità;
per caso;
esiste un’azienda di famiglia;
vogliamo trasformare un nostro interesse, un hobby, in impresa;
abbiamo una buona idea.

Esistono quindi diverse ragioni per cui abbiamo deciso di intraprendere, ma dobbiamo andare più a fondo e scoprire i veri nostri obiettivi:




vogliamo fare qualcosa per gli altri;
il campo in cui operiamo è obsoleto e vediamo le cose in maniera differente;
vogliamo migliorare le condizioni economiche della nostra famiglia;
cerchiamo più soddisfazione nel lavoro;
è qualcosa che abbiamo sempre sognato.

Avere sempre presenti i nostri obiettivi ci aiuterà a superare i momenti difficili.
Qualunque sia la ragione e gli obiettivi per cui abbiamo iniziato, il vero motivo è che abbiamo un certo talento o attitudine per la parte operativa dell’impresa: l’amministrazione, la commercializzazione, la produzione. La competenza in queste aree è ovviamente importante per iniziare, ma il fatto è che l’area operativa dell’impresa è solo una parte che costituisce il ciclo di vita dell’impresa stessa. Questo ciclo di vita in generale consiste in quattro fasi:



start up è il vero e proprio inizio dell’impresa, oppure può essere l’introduzione di un nuovo prodotto o servizio, o una nuova locazione in un altro paese, o l’introduzione di un nuovo dipartimento o funzione;
crescita è la fase in cui l’impresa si sviluppa attraverso le vendite, il personale, l’organizzazione, la struttura, la ricerca;
continuità è la fase di consolidamento dell’impresa;
riorganizzazione è la fase più critica: cambia il mercato, cambiano le leggi, cambia il rapporto con le risorse umane, il nostro prodotto o servizio diventa obsoleto.

Comprendere e superare le fasi del ciclo di vita dell’impresa presuppone possedere altre competenze che non sono solo quelle operative, ma è necessario avere competenze nella logistica, distribuzione, marketing, gestione delle risorse umane. La sinergia tra queste competenze ci permetterà di crescere e raggiungere gli obiettivi prefissi.


Bibliografia

Luciano Gallino, Sociologia dell'economia e del lavoro, Torino, Utet, 1989.
Max Weber,L'etica protestante e lo spirito del capitalismo, Firenze (Tubinga), 1965
F. X. Sutton, Il credo dell'imprenditore americano, Milano (Cambridge), 1972

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Il marketing efficace

da CaosManagement n.45

Il ruolo del marketing: massimizzare il valore tangibile e intangibile dei prodotti/servizi dell'impresa, migliorandone costantemente il valore percepito (essere il migliore non e' sufficiente, e' anche importante essere visto e percepito come il migliore).

E' quindi molto importante conoscere i criteri con i quali il potenziale cliente misura il valore dei nostri prodotti/servizi.

In un mercato in continua evoluzione e cambiamento questo e' molto difficile se non si ha una visione globale di tutto quello che ci succede intorno: il mercato, i concorrenti, i clienti, le tendenze.

Il cambiamento è alimentato dallo scambio di informazioni (una farfalla che batte le ali nella foresta amazzonica può provocare una tempesta in Europa) che é sempre più veloce e amplificato e lo sarà sempre di più.

1. Attività e non reattività
"Se avessimo aspettato di sapere che cosa voleva il mercato non avremmo mai avuto la ruota, la leva, meno ancora l'automobile, l'aereo o la televisione" (una citazione da Leo Burnett, il famoso pubblicitario). Non basta quindi reagire alle richieste del mercato, é invece necessario essere innovativi e prevenire le richieste. I principi reattivi, espressi in tutti i testi sacri del marketing, erano forse validi negli anni 50 e 60, in un mercato in continua e veloce evoluzione non sono più sufficienti. Questo non vuol dire assolutamente che non dobbiamo preoccuparci del cliente e delle sue richieste, al contrario dobbiamo sorprenderlo prevenendo le sue richieste.

2. Velocità
Agire velocemente: questo é un altro elemento fondamentale per un marketing efficace. Una ricerca di mercato elaborata e raffinata non sarà più valida quando sarà terminata: il mercato intanto sarà cambiato.

3. Conoscenza
Per essere attivi e veloci occorre costruire sulla conoscenza e sull'esperienza, e questi sono patrimoni che si acquistano col tempo, col lavoro continuo e con l'affinamento della sensibilità al mercato: nessun sistema di archiviazione può sostituire quello che c'é nella testa e nello stomaco di un esperto marketing manager.
Se è vero che nel presente tutto sta cambiando velocemente intorno a noi, é necessario, per capire, conoscere come questi cambiamenti stanno avvenendo, quindi occorre conoscere la storia.

4. Offrire al cliente un miglior affare
Una decisione di acquisto é sempre basata su poche dimensioni di valore, quattro o cinque. Per acquisire superiorità nel mercato occorre quindi concentrarsi su questi indici di valore.

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Manager Sistemico

da CaosManagement n.46

“Ogni cosa vien da ogni cosa, e d’ogni cosa si fa ogni cosa e ogni cosa torna in ogni cosa…” Leonardo da Vinci

LA COMPLESSITÀ

I problemi che l’umanità si trova a fronteggiare diventano sempre più resistenti alle soluzioni, in particolare alle soluzioni. Si tratta di problemi complessi, ovvero che coinvolgono numerosi fattori economici, ambientali, tecnici, politici, sociali, morali: pertanto la soluzione, per essere efficace, deve tener conto di tutti questi aspetti, che interagiscono fra loro.

La tecnologia ci mette a disposizione potenti strumenti per effettuare interventi mirati: possiamo far crescere grano nel deserto dissalando l’acqua marina oppure distruggere con un missile a testata nucleare un asteroide che minaccia la Terra. Ma se proviamo ad affrontare un problema complesso da una sola angolazione, possiamo forse ottenere un miglioramento locale, che sposta il problema da qualche altra parte, nel tempo o nello spazio. Trasferendoci dalle emergenze planetarie al nostro quotidiano, riscontriamo che anche la gestione delle nostre Aziende diventa sempre più complessa, per la globalizzazione dei mercati, per il tasso di aggiornamento delle tecnologie e per l’accelerazione dei cambiamenti sociali e politici. E quindi anche nel nostro lavoro ci imbattiamo spesso in problemi “resistenti” alle soluzioni specialistiche.

I sistemi complessi sono dovunque (la nostra azienda, il nostro reparto, un ecosistema, l’economia mondiale, la nostra città, l’atmosfera terrestre,..) e noi stessi rappresentiamo forse il sistema più complesso dell’universo. I sistemi complessi, pur presenti negli ambiti più diversi (economico, aziendale, sociale, psicologico, biologico, fisico, ecc.), sono però governati tutti da alcuni principi di base, che vengono a comporre la “Scienza della Complessità”.

In generale approcciamo i problemi in modo meccanicistico: analizziamo un problema scomponendolo in parti sempre più piccole, in modo da poterne studiare le proprietà. Questo orientamento ha guidato gran parte della scienza e della tecnologia nel secolo passato ed è profondamente radicato nel nostro modo di pensare (applichiamo il diagramma causa/effetto o lisca di pesce, ilteorema di Pareto 20/80...). Focalizziamo l’attenzione sulla parte che non funziona e cerchiamo di ripararla, ricorrendo agli specialisti. Questo atteggiamento ci porta ad effettuare interventi settoriali (non privi di efficacia), ma ci costringe a ridurre la visione ad un orizzonte limitato. Questo approccio funziona bene quando il problema è circoscritto in un ambito ristretto, ma si rivela sempre meno efficace all’aumentare delle dimensioni spaziali e temporali, ossia della complessità.

“Essendo tutte le cose causanti e causate, aiutate e adiuvanti, mediate e immediate, e tutte essendo legate da un vincolo naturale e insensibile che unisce le più lontane e le più disparate, ritengo sia impossibile conoscere le parti senza conoscere il tutto, così come è impossibile conoscere il tutto senza conoscere particolarmente le parti.” Pascal

Il pensiero sistemico propone una nuova maniera di guardare il mondo e l’impresa, per cercare di dominarne meglio la complessità: considerare non gli elementi singoli ma l’insieme delle parti, intese come un tutto unico, concentrandosi sulle relazioni tra gli elementi piuttosto che sui singoli elementi presi separatamente.

“Il guaio dei nostri tempi è che il futuro non è più quello di una volta”. Paul Valéry

Il Pensiero sistemico propone un approccio concreto e operativo particolarmente adatto alle organizzazioni. A differenza della Dinamica dei Sistemi, che è una disciplina specialistica, il Pensiero Sistemico può essere adottato proficuamente da tutti i manager, cioè dalle persone che prendono decisioni. Secondo molti questo approccio dovrà essere una caratteristica comune dei manager dei prossimi anni.

Questo approccio favorirà quanti, imprenditori, uomini d’azienda, quadri o manager, siano interessati a:

- ampliare l’angolo di osservazione dei problemi, per cogliere aspetti che sfuggono ad un approccio specialistico;
- affrontare con maggiore efficacia problemi interdisciplinari, da soli o in team;
migliorare la comprensione (individuale o collettiva) di un situazione complessa, mediante la rappresentazione delle cause strutturali sottostanti.

L'organizzazione di una impresa (micro, piccola, media o grande) è un organismo dinamico, sottoposto ad influenze interne ed esterne che provocano evoluzioni in maniera continua. Il mercato (clienti, concorrenti e fornitori), il progresso tecnologico, le leggi, gli asset intangibili (brand, portafoglio clienti, management, risorse umane) che sono l’80% del valore di un’impresa, sono i quattro macroelementi, a loro volta sistemi dinamici in continua evoluzione.

Il manager sistemico non limita la propria attività alla soluzione dei problemi specifici ma guarda alla sua organizzazione nel suo insieme complesso e dinamico. Il manager sistemico non guarda solo agli obiettivi da raggiungere, ma ai processi che gli permetteranno di raggiungere quegli obiettivi. Non si occupa, se non qualche volta, dell’albero ma piuttosto della foresta. Il manager sistemico non si limiterà a guidare la propria organizzazione guardando al bilancio ed al conto economico (sarebbe come guidare un automobile guardando solo nello specchietto retrovisore) ma controlla e gestisce gli avvenimenti che influiscono in maniera determinante sui risultati economici: il marketing, i processi interni, le risorse umane e la ricerca e sviluppo. (ref. http://gem4pmi.com/giuseppemonti/?page_id=2 )

Il manager sistemico deve applicare i principi della delega in maniera continua e scientifica. Non basta dare ordini perentori e punire chi non obbedisce o non esegue, agire quindi in maniera ottocentesca, ma è necessario creare le condizioni migliori in cui ognuno dei collaboratori possa esprimere le proprie capacità e competenze. Deve, in qualche caso, accettare le decisioni e le idee dei propri collaboratori anche se non corrispondono esattamente alle sue decisioni ed alle sue idee.

Il manager sistemico sa che cosa può o non può prevedere, sa decidere cosa è importante e cosa non è importante.

Per concludere ecco quali sono i task più importanti per un manager sistemico:

- scegliere nuovi collaboratori
- illustrare gli effetti della riorganizzazione di un sistema
- fornire strumenti al counselling e alla supervisione
- migliorare la qualità della comunicazione
- esaminare gli effetti dell’outsourcing
- valutare il lancio di un nuovo prodotto
- rendere più chiare le relazioni tra fornitori, azienda e clienti
- supportare le decisioni
- risolvere i conflitti nei team
- facilitare la mediazione e la negoziazione
- analizzare le implicazioni di nuovi contratti e proporre correttivi più vantaggiosi
- generare nuove idee
- sviluppare una nuova filosofia aziendale
- esaminare ed elaborare le proprie convinzioni
- facilitare l’apprendimento di competenze interculturali e di nuove lingue
- proporre nuove soluzioni a consulenti o formatori e supervisionare il loro intervento
risolvere conflitti e problemi personali, di coppia e di gruppo

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