consulenza manageriale

lunedì, agosto 15, 2011

L’imprenditore

A norma dell'articolo 2082 del Codice Civile (Libro V, Titolo II, Capo I, Sezione I) si definisce imprenditore chi esercita professionalmente un'attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi.

Di conseguenza l'impresa, sotto il profilo giuridico, è un'attività economica professionalmente organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi.

Intorno al Cinquecento appaiono le prime citazioni del termine imprenditore. Con questo nome si indicava il capitano di ventura che ingaggiava truppe per servire principi e potenti. Solo nel Settecento la definizione d'imprenditore assume i connotati moderni (nel campo agricolo il proprietario terriero, in quello manifatturiero chi produceva merci da distribuire, in quello pubblico l'impresario che realizzava infrastrutture).
Nel 1803 nel suo Traité d'économie politique Jean Baptist Say descrisse il ruolo centrale dell’imprenditore nel mondo del capitale, della produzione, del commercio e del consumo e nel 1912 Joseph Schumpeter si occupò della funzione di innovazione nei fattori produttivi apportata dalla figura dell'imprenditore.

Al giorno d’oggi e secondo la norma:

· può essere imprenditore sia una persona fisica che una persona giuridica;

· per attività economica si intende ogni attività volta ad utilizzare i fattori produttivi (capitale, lavoro e materie prime) per ottenere un prodotto (bene o servizio):

· i beni e servizi che costituiscono il prodotto dell'impresa sono solo quelli che hanno un valore economico; i beni o servizi eventualmente prodotti dall'attività d'impresa privi di un valore di scambio non costituiscono "prodotto" in senso economico;

· la destinazione al mercato dei consumatori è fondamentale perché si possa parlare di attività imprenditoriale: l'attività imprenditoriale deve essere volta a soddisfare i bisogni altrui;

· sull'imprenditore ricade il rischio d'impresa ovvero il rischio del risultato economico dell'attività intrapresa.

L’impresa ha quindi un obiettivo (produzione o scambio di beni o servizi) e, sotto il profilo economico, deve essere condotta con criteri che prevedano una adeguata copertura dei costi con i ricavi.

Fin qui le regole e le norme (e alcuni cenni storici).

E’ possibile dire che siamo tutti imprenditori

Qualsiasi sia il nostro lavoro o quello che vogliamo fare, a meno che non ci piaccia solo eseguire alla lettera gli ordini che riceviamo; sia che siamo titolari di azienda o manager o quadri o anche semplici impiegati od operai, se abbiamo delle responsabilità e delle aspirazioni siamo imprenditori, anche se di un’impresa costituita solo da noi stessi.

Imprenditore è colui che opera in maniera totalmente differente da come operano i concorrenti. Imprenditore è colui che vede cose che gli altri non vedono. L’imprenditore è un visionario.

Passione, energia, entusiasmo e pulsione questo è quello che distingue l’imprenditore di successo da tutti gli altri.

Un imprenditore entra in un settore innovando nel senso di produrre o di distribuire in maniera diversa, aggiungendo, sottraendo o migliorando caratteristiche e benefici al prodotto o al servizio dei concorrenti.

Qualcuno ha detto: “se non sei in affari per soldi, per divertimento o per tutti e due che ci fai lì?”. In effetti la maggior parte degli imprenditori di successo ama il proprio lavoro.

Un antico proverbio giapponese recita: “la visione senza l’azione è sognare ad occhi aperti ma agire senza visione è un incubo”.

La domanda a cui quindi è necessario rispondere ed esaminare in maniera profonda è PERCHE’? Perchè abbiamo deciso di diventare imprenditori. Cosa ci ha spinto ad intraprendere un lavoro difficile e rischioso, che richiede tutta la nostra attenzione, che prende tutto il nostro tempo.

I perchè decidiamo d’intraprendere possono essere vari:

· non abbiamo più il “posto fisso”;

· siamo stanchi di lavorare per altri e vogliamo essere indipendenti;

· abbiamo vinto all’enalotto o ricevuto un’eredità;

· per caso;

· esiste un’azienda di famiglia;

· vogliamo trasformare un nostro interesse, un hobby, in impresa;

· abbiamo una buona idea.

Esistono quindi diverse ragioni per cui abbiamo deciso di intraprendere, ma dobbiamo andare più a fondo e scoprire i veri nostri obiettivi:

· vogliamo fare qualcosa per gli altri;

· il campo in cui operiamo è obsoleto e vediamo le cose in maniera differente;

· vogliamo migliorare le condizioni economiche della nostra famiglia;

· cerchiamo più soddisfazione nel lavoro;

· è qualcosa che abbiamo sempre sognato.

Avere sempre presenti i nostri obiettivi ci aiuterà a superare i momenti difficili.

Qualunque sia la ragione e gli obiettivi per cui abbiamo iniziato, il vero motivo è che abbiamo un certo talento o attitudine per la parte operativa dell’impresa: l’amministrazione, la commercializzazione, la produzione. La competenza in queste aree è ovviamente importante per iniziare, ma il fatto è che l’area operativa dell’impresa è solo una parte che costituisce il ciclo di vita dell’impresa stessa. Questo ciclo di vita in generale consiste in quattro fasi:

· start up è il vero e proprio inizio dell’impresa, oppure può essere l’introduzione di un nuovo prodotto o servizio, o una nuova locazione in un altro paese, o l’introduzione di un nuovo dipartimento o funzione;

· crescita è la fase in cui l’impresa si sviluppa attraverso le vendite, il personale, l’organizzazione, la struttura, la ricerca;

· continuità è la fase di consolidamento dell’impresa;

· riorganizzazione è la fase più critica: cambia il mercato, cambiano le leggi, cambia il rapporto con le risorse umane, il nostro prodotto o servizio diventa obsoleto.

Comprendere e superare le fasi del ciclo di vita dell’impresa presuppone possedere altre competenze che non sono solo quelle operative, ma è necessario avere competenze nella logistica, distribuzione, marketing, gestione delle risorse umane. La sinergia tra queste competenze ci permetterà di crescere e raggiungere gli obiettivi prefissi.

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sabato, marzo 26, 2011

Essere, sapere, saper fare

L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto da non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione ed apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.

(Italo Calvino, Le città invisibili) .


Imprenditore si nasce o si diventa? Quante volte ci siamo sentiti porre questa domanda. E quante volte abbiamo letto od ascoltato risposte spesso banali o analisi profonde ed astratte. Discorsi da bar dello sport. Sull’argomento penso di poter dire qualcosa di non banale, forte dell’esperienza di aver fondato diverse imprese in diversi paesi (Zambia, Ecuador, Inghilterra e in Italia più volte) e di aver contribuito alla fondazione di tante altre in qualità di consulente di direzione in diversi paesi ed in Italia più volte. Cominciamo subito col dire che è sicuro: imprenditore si diventa (ci si può costruire), se lo si vuole con determinazione, ed anche la volontà e la determinazione si possono costruire ed alimentare. Di quali siano le attitudini necessarie all’imprenditore avevamo già detto (vedi Caosmanagement n°.44). Si tratta in ogni caso di attitudini “costruibili” e “conseguibili” non necessariamente innate. L’elenco più gettonato è il seguente:

fiducia in se stessi;


ottimismo;


stabilità ed equilibrio emotivo;


capacità di organizzazione e pianificazione;


flessibilità;


propensione al rischio;


tenacia;


capacità relazionali e comunicative.

Sulla propensione al rischio starei molto attento e non posso fare a meno di citare una esperienza personale. Durante la mia residenza in Zambia come consulente per conto di Mediobanca fondai una piccola società di produzione cinematografica; si trattava praticamente di una “one man band”. Tra le varie attività della società, spot pubblicitari, vari documentari per enti statali, ottenni l’incarico di corrispondente di VisNews, una società della Reuters. Filmavo tutto quello che avveniva, inaugurazioni, cronaca, convegni politici, ed inviavo per corriere a Londra, 50 US$ per cinque minuti di raw material. Era l’inizio degli anni settanta ed in Angola c’era la guerra: tre missioni in zona di guerra. Non si trattava di propensione al rischio, era pura incoscienza. Con la mia pesante cinecamera Arriflex 16mm sulla spalla, le batterie legate ai fianchi ed il registratore Nagra appeso al collo mi sentivo come in una corazza invulnerabile con le pallottole che fischiavano intorno e le mine che scoppiavano vicino.

Essere
Quello che è molto importante per l’essere sono le motivazioni che ci spingono ad intraprendere una attività autonoma, per quanto lo possa essere l’attività di imprenditore. La motivazione è un elemento chiave perché è l’energia che stimola ad esercitare le capacità, ad affrontare gli ostacoli e ad impegnarsi per raggiungere gli obiettivi. La motivazione è tanto più forte, quanto più importante è il valore che si attribuisce all’obiettivo che si vuole raggiungere. La decisione di intraprendere, sia pure in solitario, può essere presa per caso, per un’idea che ci sembra fantastica, per voglia di cambiare, per voglia d’indipendenza, per curiosità, per spirito d’avventura, per necessità, per passione. Si tratta di motivazioni valide. Da una sola motivazione dobbiamo guardarci: se siamo solo e principalmente motivati dalla voglia di arricchirci. Questa non è una valida motivazione.

Sapere
Proviamo a digitare in qualsiasi motore di ricerca su internet “diventare imprenditore”. Troveremo più di 200.000 siti che promettono di dirci come si fa. Solo alcuni sono di una qualche utilità e possono darci qualche idea su cosa dobbiamo apprendere per costruire un’attività in proprio. Il 50% vogliono iscriverci a qualche corso di cui è prescritta la durata in ore ed i contenuti più vari. Ce ne sono addirittura alcuni che promettono di trasformarci in “Consulenti di Direzione” in 2 o 300 ore, col rischio di mettere sul mercato della consulenza giovani laureati, magari con master, che poi pretendono di indicare agli imprenditori, quelli veri, cosa fare. Un altro buon 40% ci descrive tutte le procedure burocratiche necessarie: lo statuto, la camera di commercio, la partita IVA, i contratti di lavoro, la tenuta dei libri contabili, il bilancio, il conto economico, fiscalità, finanziamenti, contributi, tutte questioni burocratiche e complicate che stanno, oltretutto, per essere semplificate come è già accaduto nella quasi totalità dei http://gem4pmi.com/d6/?q=content/leuropa-le-pmi-0 paesi europei . E’ molto importante non lasciarsi coinvolgere da questi aspetti burocratici del fare impresa. Si tratta invece di concentrarsi su quello che dovrà essere il nostro obiettivo strategico: cosa vogliamo, dobbiamo e possiamo fare per servire altri traendone anche noi soddisfazione.

Su qualcuno di questi siti ci sono delle indicazioni utili quali per esempio domande da farsi prima di cominciare ad intraprendere:

In cosa consiste il prodotto/servizio?


Quali caratteristiche lo rendono diverso?


È in grado di confrontarsi sul mercato? In che modo?


Quali risorse produttive, umane, finanziarie, tecnologiche e ambientali sono necessarie per la sua realizzazione? Come si pensa di reperirle?


Quali sono i potenziali clienti?


Quali bisogni (primari, secondari) va a soddisfare?


Quali sono i concorrenti?


Quali minacce possono rappresentare un problema per l’impresa?


Quali opportunità ed occasioni si possono sfruttare per l’avvio?


Quali strategie si pensa di adottare per realizzare gli obiettivi?


Qual è il tipo di struttura organizzativa?

Non sarà necessario sapere rispondere in maniera esauriente a tutte queste domande, ma è sicuramente importante documentarsi ed apprendere questi elementi per poter costruire un buon piano di fattibilità ed un buon piano di marketing. Sui sistemi per apprendere abbiamo già detto in un precedente numero della rivista. Possiamo solo aggiungere che per far crescere la nostra conoscenza, il nostro sapere, è assolutamente necessario studiare, leggere, essere prima di tutto curiosi e non accontentarsi della prima risposta. Non ci limiteremo ai manuali di management spesso obsoleti e che non tengono conto dei grandi cambiamenti avvenuti. Avremo occhi ed orecchie spalancati per tutto quello che avviene intorno a noi e nel mondo. E non ci farà certamente male se leggeremo anche letteratura e filosofia, c’è tanto da apprendere anche dall’arte. Quando mi si chiede consiglio sulla facoltà universitaria suggerisco sempre filosofia, se si ritiene proprio necessario iscriversi all’università: bisogna apprendere ad apprendere. Non fidiamoci di ricette o vademecum.

Saper fare
Il primo incarico in Olivetti fu la gestione dello STAC (Servizio Tecnico Assistenza Clienti) della filiale di Palermo, fra personale tecnico ed amministrativo ventisei persone. In uno dei primi giorni in pratica mi sparì un tecnico, al suo ritorno in tardo pomeriggio naturalmente gli chiesi spiegazioni. Mi raccontò di enormi difficoltà per la riparazione di una macchina contabile: aveva dovuto smontarne diverse parti per raggiungere una levetta da registrare. Simulammo insieme il difetto e gli mostrai come ripararlo in non più di 10 minuti. Da quel momento ricevetti il massimo rispetto e diventai il capo. Tutto questo grazie ai dodici mesi, dall’assunzione all’incarico, durante i quali avevo ricevuto formazione ed addestramento intensa: smontare macchine da scrivere e da calcolo fino ad ottenere tanti mucchi di vitine, levette, mollettine e poi rimontare il tutto perché funzionasse di nuovo, periodi di permanenza in varie filiali come semplice tecnico, affiancamento a diversi capiofficina, lezioni teorico/pratiche di basic management. Non basta sapere bisogna anche saper fare.

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Outsourcing: come applicarlo

Da più di trent'anni le imprese ricorrono all'outsourcing per risolvere alcuni dei loro problemi e per tentare di ridurre i costi di gestione; questa tendenza continua a crescere con l'ulteriore processo di terziarizzazione della nostra economia.

Il ricorso all'outsourcing, però, sta diventando sempre più importante per le aziende e da elemento di supporto si sta trasformando in fattore strategico di grande rilevanza, prevedendo l'esternalizzazione di un intero processo aziendale (Business Process Outsourcing).

La società che fornisce il servizio di outsourcing, non avrà più in gestione una singola attività, ma un intero processo, compresa la gestione finanziaria e delle risorse umane; questa modalità, il BPO, prevede la condivisione degli obiettivi e delle responsabilità, in questo modo il fornitore è elevato a livello di partner della società committente ed è spinto a lavorare meglio ed in maniera ancora più efficace.

L'outsourcing permette di:

ridurre costi;
sviluppare e controllare le strategie rapidamente;
esternalizzare le attività per incrementare l'efficacia;
snellire i processi interni.

L’outsourcing: moda o necessità?
L’outsourcing, contrazione dell’inglese “outside resourcing”, è in Italia, in molti casi una moda, in molti altri un pessimo servizio, in pochi casi un buon esempio di corretta gestione. Tuttavia, sarebbe estremamente sbagliato ritenere che non funzioni, ma è altrettanto doveroso dire che fino ad oggi, poche realtà hanno tratto un reale vantaggio nell’affidare all’esterno una attività o un servizio non strategico.

Credo che un po’ di confusione e di malinterpretazione ci sia stata sia da parte delle aziende, sia da parte delle strutture che hanno erogato il servizio. Intanto definiamo bene il concetto: Outsourcing vuol dire affidare un’attività non strategica in gestione esterna. Ovvero, tutte le attività di gestione svolte, per un periodo di tempo prolungato (diversi anni) e definito a livello contrattuale, da un operatore esterno all’azienda cliente.

E’ un accordo, stipulato tra committente e fornitore (outsourcer), in base al quale il primo appalta al secondo una funzione o un servizio, che in precedenza realizzava al proprio interno. I vantaggi che un’azienda otterrebbe, affidando quei servizi o funzioni non strategiche in outsourcing, sono molti e tutti significativi.

Ad esempio, esternalizzare alcuni servizi consente, alla azienda committente, di concentrarsi solo sul proprio "core business", cioè su tutte le attività in grado di generare direttamente profitti, lasciando all'outsourcer il compito di gestire le funzioni di supporto.

Permette all'azienda di fruire di un servizio con elevati standard qualitativi (perché erogato da specialisti) e a costi competitivi. Riduce l'esposizione finanziaria necessaria all'acquisto e all'adeguamento di attrezzature e tecnologia necessarie per lo svolgimento di tutte quelle attività considerate di supporto.

Negli anni 80, in Inghilterra, io ero lì, tutti parlavano dell’outsourcing come del nuovo mercato, a cui tutti dovevamo abituarci al più presto. Era quello il periodo peggiore per la Pubblica Amministrazione inglese che, costantemente sotto pressione per bassa qualità del servizio e costi gestionali altissimi, si interrogava su tutte le possibili soluzioni. Le soluzioni potevano essere di due tipi:

uno interno – con piani di aggiornamento e di miglioramento destinati ad elevare la qualità del servizio comprimendo il più possibile i costi gestionali;


uno esterno – affidando fuori alcuni servizi ritenuti non strategici.

Prevalse di gran lunga la seconda ipotesi, e quindi di li a poco assistemmo ad una radicale trasformazione dei Ministeri inglesi. Nacquero le “Next Steps Agencies” con il compito di gestire le funzioni operative dei Ministeri al fine di consentire ai Ministeri di concentrarsi meglio sulla formulazione delle politiche. Molti ministeri, vennero così scorporati affidando alle Agenzie il compito di ottenere risultati.

L’impressione avuta, è che sul piano dei risultati sussistono pesanti dubbi che queste agenzie abbiano comportato miglioramenti. Forse perché create in prevalenza con il personale che prima prestava servizio nell’amministrazione e quindi, ma è solo la mia impressione, poco abituati a ri-pensare costantemente il proprio lavoro col l’obiettivo del miglioramento continuo. Al contrario, alcune di esse hanno recepito l’idea del cambiamento e i Chef Executive, reclutati nel settore privato, hanno trasformato le modalità di gestione del lavoro, generando ragguardevoli guadagni di efficienza.

In Italia la situazione non è diversa. L’approccio all’outsourcing è, a mio parere, inadeguata. La delega ad un soggetto esterno, infatti, è uno strumento incredibilmente potente del quale bisogna conoscere le potenzialità ma anche i rischi. Non si può pensare infatti di gestire un progetto di outsourcing con le modalità secondo le quali si gestiscono gli abituali rapporti cliente-fornitore.

Forse il segreto per un buon Outsourcing è concepire il rapporto con tre soggetti coinvolti: azienda committente – terza parte – outsourcer. Le mie sensazioni ed esperienze in gestione aziendale mi inducono a ritenere possa essere profittevole concepire l’outsourcing con un terzo elemento, in sostanza con un “arbitro”. Un soggetto che preposto alla gestione ed alla regolamentazione del rapporto di Outsourcing abbia come obiettivo e come suo “core business” l’ottenimento degli obiettivi fissati contrattualmente.

E’ questo il punto focale dell’outsourcing: il raggiungimento di un obiettivo. Ed in questo, il ruolo dell’”arbitro” può essere estremamente importante. Nella definizione degli obiettivi, ad esempio, ed ancora, nella individuazione dei parametri da misurare per verificare l’effettivo raggiungimento dei risultati.

L’arbitro, che sia una società di consulenza o un consulente free lance, sa benissimo quanto sia importante il monitoraggio quotidiano per tenere in rotta la nave. Anche perché dal raggiungimento dell’obiettivo dipenderà, la soddisfazione dell’azienda committente e dell’outsourcer, ma anche, anzi soprattutto, la sua riconferma. Quindi, starà ben attento al raggiungimento dell’obiettivo. Nella fase di individuazione dell’obiettivo si gioca, in buona parte, la partita. Non serve a nessuno avere dei partner compiacenti e disposti a tutto pur di fatturare qualche milione. Lo spirito dell’azienda committente, la sua missione e tutto quello che ne consegue, deve essere a conoscenza dell’outsourcer e da questo accettato.

Se l’efficienza in ogni area fa parte della filosofia dell’azienda committente, la stessa efficienza si deve pretendere dall’outsourcer, al quale si delega l’esecuzione del servizio ma non la responsabilità nei confronti del cliente. E infatti, ricordiamocelo sempre, al nostro cliente non interessa chi svolge il servizio, ma solo che gli accordi presi con noi, e non con l’outsourcer, vengano rispettati, soddisfacendo così le proprie aspettative.

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giovedì, dicembre 03, 2009

Scrap the MBA

da CaosManagement n.43

E’ giunto il momento di abolire i Master in Business Administration?

Per amor di patria non parleremo delle scuole dei manager italiani, da cui vengono fuori personaggi che non sanno che Napoleone ha perso a Waterloo o che la Libia è stata una colonia dell’Italia, che spesso non sanno distinguere tra ha (verbo avere) ed a (preposizione), che applaudono entusiasti se qualcuno gli dice che la crisi non esiste ed è solo un fatto psicologico, che sembrano fatti con lo stampino, la testa rasata, con la loro arroganza, il loro vestitino blu, la cravatta di marinelli ed il loro telefonino ultima moda da usare con fragore nella prima classe della freccia rossa.

Parleremo invece della importante discussione che si sta svolgendo a livello internazionale sugli MBA, i Master in Business Administration.
E’ nato anche un nuovo termine: “MBA clone” (Dan Herman). Molti manager frequentano gli stessi corsi, studiano sugli stessi libri, leggono gli stessi giornali e le stesse riviste, partecipano agli stessi convegni ed assistono alle stesse conferenze. In questo modo assumono lo stesso atteggiamento e lo stesso vocabolario nei confronti del business. Diventano degli MBA clone. Naturalmente non tutti diventano MBA clone e Dan Herman propone un questionario per verificare se lo si è diventato ed una serie di suggerimenti per “declonizzarsi”. Alcuni suggerimenti sono assolutamente accettabili, quali per esempio quello di abbandonare la strategia a lungo termine, di non confondere obiettivi e strategia, altri andrebbero discussi in maniera più approfondita come quello di abbandonare la market segmentation per la contextual segmentation oppure rinunciare alla vision. Henry Mintzberg critica aspramente l’MBA. Riportiamo qui parte di una recente intervista alla CNN:

CNN: Quale dovrebbe essere l'obiettivo dell’MBA?

MINTZBERG: Creare migliori manager che creino migliori organizzazioni che creino un mondo migliore.

CNN: Il management può essere insegnato?

MINTZBERG: No, è possibile migliorare la qualità o le caratteristiche dei manager, non è possibile creare i manager in aula..... Quello che non si può fare è insegnare la gestione a qualcuno che non è un manager, come non si può insegnare un intervento chirurgico a chi non è un chirurgo. .............. Quello che ho contro gli MBA è il fatto che vieni fuori da un programma di MBA di due anni, non avendo mai fatto il manager, e presumi che sei pronto per assumere responsabilità di manager. Non solo lo presumi, ma è la stessa scuola che te lo assicura, e questo è profondamente sbagliato. ........ io considero la gestione, il management, come arte, artigianato e scienza. Si tratta di una pratica che si basa su arte, artigianato e scienza e c'è un sacco di artigianato, nel senso di esperienza, che comporta intuizione, creatività, visione e vi è l'uso della scienza, della tecnica e dell’analisi. Ma i programmi MBA sono così orientati prevalentemente verso la parte analitica che vengono fuori quelli che io chiamo “calculating managers” e penso che stanno causando problemi ovunque................................... Nelle scuole di management si da molta importanza ai case study. Si basano sul fatto di leggere una ventina di pagine di un’impresa di cui probabilmente non hai sentito mai parlare ed il giorno dopo si va in aula a parlarne. Così si stanno formando persone che pensano: datemi una ventina di pagine di relazione ed io vi do la strategia. ...............non vi è alcuna esperienza diretta, nessuno ha mai incontrato il cliente, non è mai stato nelle fabbriche, non conosce i prodotti, nessuno sa nulla. E sono tutti a parlare di ciò che la società è tenuta a fare, perché hanno trascorso un paio d'ore la sera prima a leggere il caso....................

Ray Williams in un articolo per il Sounding Board, rivista del Vancouver Board of Trade, rileva che per la maggior parte i programmi delle scuole di business sono orientati alla teoria ed utilizzano gli strumenti tradizionali: case studies, lezioni, film e discussioni. Il problema, secondo Ray Williams, è che i docenti di queste scuole sono scelti non sulla base della loro esperienza di leader o manager, ma sulla base delle ricerche pubblicate.
Kelly Holland in un articolo sul New York Times rileva che le scuole di business sono troppo teoriche e con pochi contatti con il mondo reale, agli studenti si insegna come affrontare problemi complessi con soluzioni semplici e rapide, l’unico obiettivo è quello di massimizzare il valore delle azioni, senza nessun riferimento all’etica ed ai problem sociali.
Anche Rakesh Khurana pensa che le scuole di business formano dei manager il cui unico obiettivo è quello di far crescere il valore della azioni e che, quindi, sono dei semplici agenti della proprietà, con tutto quello che deriva da questa idea.
In un articolo nel London Times, Philip Broughton è molto più feroce ed afferma che se Robespierre rinascesse e cercasse persone da ghigliottinare potrebbe cominciare da quelli che dopo il proprio nome inseriscono la sigla MBA: questa categoria di banchieri, finanzieri e consulenti distruttori di valore ha fatto molti più danni di qualsiasi altra categoria di persone. Broughton rileva anche che se facciamo una lista dei più importanti imprenditori nella storia recente, da Larry Page e Sergey Brin di Google, Bill Gates di Microsoft, a Michael Dell, Richard Branson, Lakshmi Mittal, non troviamo un solo MBA. Se invece guardiamo dalla Royal Bank of Scotland a Merrill Lynch, da HBOS a Lehman Brothers, troviamo le impronte digitali di tanti MBA.

Lynda Gratton prevede, molto ottimisticamente, che saranno gli studenti a provocare il cambiamento nelle business schools. La sua opinione è che coloro che si iscrivono a queste scuole o che affrontano un MBA sono oggi a conoscenza, per fonti fuori dall’ambiente accademico, che esistono altri modelli di impresa, più egualitari e che esistono quelli che lei indica come “social entrepreneurs”.

Quest’ultima nota di ottimismo si basa sul fatto che la diffusione ed il facile accesso alle informazioni che riguardano le imprese è ormai un fatto compiuto nei paesi in cui esiste una trasparenza e dove i media sono effettivamente liberi da vincoli politici o addirittura di ownership. Speriamo che questo possa avvenire anche da noi.

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sabato, agosto 01, 2009

La più importante lezione di gestione che io abbia mai ricevuto

Ero all’epoca, parlo di molti anni fa, un giovane manager/consulente che gestiva in Zambia, per conto di una società di Mediobanca il concessionario Olivetti, occupandomi nello stesso tempo dei paesi subsahariani per conto dell’Olivetti stessa.
Un sabato pomeriggio mi fu offerta la Direzione Generale di una industria di articolati ed autobotti: avrei preso possesso della carica il lunedì mattina. Si trattava della Lusaka Engineering Company, 1.400 persone, partecipazione 40% Stato Zambiano, 40% Mediobanca e 20% Fratelli Piacenza. La mia ultima esperienza di gestione era stata fino a quel momento la direzione dell’assistenza tecnica clienti per l’area di Londra (230 tecnici). Ritenni quindi onesto dichiarare la mia esitazione ad accettare l’incarico per manifesta mancanza di esperienza. Ebbi molto coraggio: dimenticavo di dire che l’offerta mi fu fatta personalmente dal dottor Enrico Cuccia. Ed è da lui che ricevetti una lezione di management che non potrò mai dimenticare. L’uomo parlava pochissimo, ho avuto poi modo di incontrarlo un altro paio di volte in Africa ed a Milano. Egli scrisse su un foglio che ancora conservo quattro frasi: fatture emesse, fatture ricevute, pagamenti ricevuti e pagamenti effettuati. Mi girò il foglio perché lo leggessi e disse: “Guardi ingegnere lei lunedì va in fabbrica, per due settimane non prende nessuna decisione e tutte le sere si fa portare nel suo ufficio dal Direttore Amministrativo questi quattro numeri, alla fine delle due settimane riunisce tutti i direttori (non usava la parola manager) intorno al tavolo della Direzione, tiene i numeri in ordine davanti a sé e comincia a fare domande. Vedrà che dopo la riunione sarà in grado di prendere decisioni.” Seguii le istruzioni alla lettera, per fortuna avevo una segretaria inglese non molto attraente ma molto efficiente, e dopo due anni della mia gestione la Price Waterhouse potette stilare un report pieno di complimenti per il management.

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giovedì, agosto 28, 2008

Tempo ... perso

Se cerchiamo time management su google vengono fuori centocinquantaquattro milioni di pagine. Non è un errore di stampa: sono effettivamente 154 milioni di pagine: l’argomento è molto popolare. Eppure time management vuol dire gestione del tempo ed il tempo non si può gestire: il tempo è, esiste (David Allen).
Quello che si può fare è solo analizzare la nostra utilizzazione del tempo e cercare di farne un buon uso per i nostri scopi.
E’ possibile analizzare il tempo a nostra disposizione secondo le seguenti categorie:
RICHIESTO
- il tempo che ci viene richiesto dai nostri “clienti” e che dobbiamo assolutamente dedicare alla loro soddisfazione;
PROGETTATO
- il tempo che avevamo previsto e progettato per varie attività;
REALIZZATO
- quello che effettivamente abbiamo utilizzato per le varie realizzazioni;
DESIDERATO
- quello che vorremmo avere a disposizione per le varie realizzazioni.
-
Le perdite di tempo più comuni
AUTO INDOTTE
- La disorganizzazione
- L’incapacità di dire di no
- Il rinvio
- Mancanza di interesse
-
DOVUTE AD ALTRI/O
- I visitatori
- Le telefonate
- La posta
- Le attese

MOTIVI PER CUI TENDIAMO A RIMANDARE ALCUNE ATTIVITA’
Differimento Rinvio
- compiti sgradevoli
- compiti faticosi
- incarico non chiaro
- perfezionismo
- obiettivo non chiaro
- sovraccarico di impegni
- perfezionismo
- resistenza al cambiamento
- ridursi all’ultimo momento
- paura di sbagliare

ALCUNI SUGGERIMENTI: - identificare e porre in ordine di priorità gli obiettivi - gestire gli strumenti di programmazione, come agende e liste delle cose da fare - ridurre i sovraccarichi di lavoro ed eliminare le perdite di tempo - delegare in modo efficace
L’argomento è molto vasto. Torneremo quindi, sviluppando prima di tutto i suggerimenti, nei prossimi interventi.

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martedì, agosto 05, 2008

PRODUTTIVITA’

Fare di più con meno in 10 mosse


Tutte le volte che sento nominare la parola produttività insieme a ore di lavoro, assenteismo et similia mi viene in mente, oltre al taylorismo, un battuta non tanto comica: “Per quale motivo devono passare otto ore tra il timbro d’ingresso e quello di uscita?”


Molto spesso, ed abbastanza superficialmente, si confonde produzione/prodotto con produttività. Quando si compie questo errore si pensa che aumentando il numero dei produttori (o le ore di lavoro/presenza) si riesce ad aumentare la produttività. Ed invece avviene proprio il contrario.

La produttività è in sintesi il numero di unità di prodotto per addetto. Quindi, se aumentiamo solo le ore di presenza forse le unità di prodotto in senso assoluto potrebbero anche aumentare, ma certamente non miglioreremo la produttività.


Per migliorare la produttività, che vuol dire fare di più con meno, sono necessarie molte altre attività. Fare di più con meno, in special modo nei servizi, è una delle sfide contemporanee in tempi di scarse risorse. Si tratta dunque di utilizzare nel modo più efficiente possibile le risorse disponibili.


Le dieci mosse da fare:
1. Definire il costo vero dei sevizi;
2. Identificare e migliorare i processi a più alto costo;
3. Decidere quali processi è possibile dare in outsourcing;
4. Definire obiettivi condivisi;
5. Introdurre la cultura della rendicontazione;
6. Controllare e prevedere le performance;
7. Costruire un budget accurato ed efficace;
8. Tenere al minimo il costo dell’hardware;
9. Migliorare la cultura della trasparenza e della delega;
10. Introdurre la leadership responsabile.

In effetti si tratta di applicare il Value Management.

Se tutto questo sembra difficile è sempre possibile applicare un altro metodo, come nel video che segue.

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domenica, aprile 27, 2008

La Balanced Scorecard: strumento strategico per monitorare e gestire il business nelle PMI

Le piccole e medie imprese italiane presentano tutte un problema di dimensione. L'assunto del "piccolo è bello", considerato fino a pochi anni fa un punto di forza del sistema imprenditoriale del nostro Paese, viene ora considerato una "criticità" se paragonato con le tendenze in atto su scala globale; si può dire che un mito è crollato, almeno in parte.

Si parla molto di competitività, in realtà è proprio la strategia una delle leve principali della competitività; la strategia è uno strumento che insieme alla sperimentazione di nuovi modelli organizzativi può facilitare il cambiamento. La pressione competitiva non è sempre avvertita dalla piccola impresa come un fattore critico di sopravvivenza perché essa, fino ad oggi, si è ritagliata una propria collocazione di nicchia con una gestione quotidiana finalizzata, in primis, alla sopravvivenza.

La strategia di una PMI non ha quasi mai un respiro di medio o lungo periodo: spesso è improntata alla quotidianità e l'approccio manageriale, se così si può dire, è di tipo reattivo.

E' necessario introdurre nella PMI uno stile imprenditoriale orientato alla strategia e all'introduzione di nuovi modelli organizzativi in sintonia con i nuovi orientamenti1 della cultura d'impresa per avviare una fase di sperimentazione che aiuti a superare anche le attuali difficoltà di natura competitiva.

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