consulenza manageriale

sabato, marzo 26, 2011

L’auto(im)mobile e Marchionne

“Se mettiamo una rana in una pentola d’acqua bollente, il suo istinto la fa saltare subito fuori poiché avverte il pericolo. Ma se la mettiamo in una pentola d’acqua tiepida, ed aumentiamo la temperatura lentamente fino all’ebollizione rimane lì ed alla fine muore bollita”.

L’apologo descrive quello che sta succedendo al mercato dell’auto, almeno nei paesi più avanzati e nelle città più densamente abitate. Ci si sta abituando lentamente ad una velocità di percorrenza sempre più bassa. E questo non solo in città affollate ma anche spesso sulle autostrade. A tutti sarà capitato di dover attendere tempi lunghi prima di poter uscire da un parcheggio o dal box per potere inserirsi nel lento flusso di macchine.

Prima o poi succederà che dopo aver avviato il motore non riusciremo a muoverci neppure di un metro fuori dal box o dal parcheggio. A questo punto la rana sarà bollita.





Ma di questo abbiamo già detto (v.car sharing).

Ci sono però altri fattori che dovrebbero essere presi in considerazione quando trattiamo il mercato dell’auto, prima che l’acqua raggiunga la temperatura di ebollizione.

Prima di tutto dovremo stabilire cosa acquista il mercato. Certamente non un insieme di pezzi meccanici: un motore, una carrozzeria, delle ruote, un cambio. Oltretutto si tratta di una tecnologia vecchia di almeno cent’anni. Acquistiamo quindi un servizio, la soddisfazione di bisogni e desideri: la possibilità (sempre più illusoria) di poterci trasferire in maniera indipendente, il poter mostrare la nostra opulenza, facendo il giro intorno alla fontana nella piazza principale del paese (quelli che comprano la Ferrari).

Altro fattore è il rapporto costi/benefici. E’ ormai dimostrato che l’uso privato di un’autovettura si limita in media al cinque per cento della vita dell’autovettura stessa; vale a dire più o meno un’ora al giorno in media. Questo vuol dire che teniamo la nostra auto immobile per 23 ore su 24, percorrendo più o meno una ventina di chilometri al giorno in media. Un semplice calcolo, che tenga conto del costo di acquisto, tassa di circolazione, ammortamento, gomme, manutenzione, assicurazione eccetera, dimostra che il costo a chilometro è assolutamente esorbitante. Senza considerare il costo del carburante sprecato col motore acceso mentre si è in coda.






Prima che la rana muoia bollita sarebbe quindi necessario guardare avanti e, da parte delle imprese produttrici, rivoluzionare la strategia, modificare la curva del valore (v. SOB).

In ogni caso il problema è complesso e sicuramente resistente a soluzioni semplici. Non si tratta quindi, come eravamo abituati a fare nel secolo scorso, di scomporlo in piccole parti, studiarle, applicare il diagramma causa/effetto, la lisca di pesce, il teorema di Pareto 20/80 eccetera. Si tratta invece di applicare il pensiero sistemico, guardare al problema complesso concentrandosi sulle relazioni tra gli elementi piuttosto che sui singoli elementi presi separatamente (v. Pensiero Sistemico).

La sola speranza è che in questo momento da qualche parte ci sia qualcuno che stia pensando alla soluzione del problema della mobilità individuale affrontandolo in maniera olistica (produzione, economia di scala, delocalizzazione eccetera). Questo qualcuno, per quello che sappiamo, non è certamente il Dottor Marchionne.
Sui media, e particolarmente su vari blog, si è aperto una grande discussione sull’operato del manager italo-canadese. Il dibattito si svolge principalmente sulla sua scarsa attitudine alla comunicazione. E questo è, a mio parere, un grande limite.

Alcuni anni fa uno studio di Harvard dimostrò che in media il valore di una impresa è costituito per l’ottanta per cento dal valore degli asset intangibili, costituito per la massima parte dalla motivazione, competenza, conoscenza e coinvolgimento del personale a tutti i livelli. Per quello che si nota sembrerebbe che questo sia stato completamente trascurato.

E’ banale dire che una buona strategia per diventare una execution di successo ha bisogno di essere portata avanti da un gruppo di persone competenti e coinvolte.
Dovere primario di ogni leader è provvedere a che ogni membro del proprio team porti a compimento la propria parte del piano aziendale, al fine di assicurare l’intero successo aziendale. Il coinvolgimento attivo di tutte le parti è fondamentale e il dialogo, franco e realistico deve costituire il cuore di questa filosofia.

In sintesi non è sufficiente tendere alla riduzione dei costi attraverso delocalizzazione, economia di scala e aumento della produttività. Sarà invece necessario seguire un ragionamento moderno basato sul fatto che se voglio migliorare il mio rendimento economico/finanziario dovrò servire meglio il mio mercato rispetto ai miei concorrenti, anzi l’ideale è riuscire a proporre al mercato una unique proposition, creando così un nuovo mercato, ma per ottenere questo risultato avrò bisogno di ricerca e sviluppo portati avanti da un team capace, competente ed altamente coinvolto.

Trascurare questi principi vuol dire non essere un buon manager, un buon leader, un buon imprenditore.

Consumo e consumismo

Consumo è cosa buona, consumismo è consumo patologico

Negli anni sessanta, l’economia degli Stati Uniti e dei paesi dell’Europa Occidentale attraversò un periodo di espansione. Questo ebbe, in parte, l’effetto di diminuire le diseguaglianze economiche e fece raggiungere ai paesi occidentali un buon grado di prosperità. Vi fu quindi un aumento della domanda dei beni di consumo (automobili, elettrodomestici, televisori, abbigliamento, etc…).

Il mantenimento di questa prosperità era strettamente legato alla continua espansione della domanda. I cittadini cominciarono a essere indotti, in primo luogo dalla pubblicità, ad acquistare sempre di più, anche usando il mezzo delle rate e delle cambiali. Molte persone, anche se non benestanti, iniziarono ad acquistare beni che non servivano più a soddisfare bisogni precisi e reali, ma il cui possesso li faceva sentire al passo con i tempi. Ebbe inizio il consumismo che dura tutt’oggi. La contestazione giovanile che si ebbe nel 1968 attaccava anche il consumismo; infatti i giovani lo definivano una società fondata solo su beni materiali.

Il consumismo fu aiutato dalla diffusione di strumenti di credito al consumo, tra cui la carta di credito, i quali consentivano di acquistare beni pur non avendo il denaro necessario per l’acquisto.

In questa fase del processo divenne di primaria importanza la distribuzione: e quindi la creazione di grandi magazzini, centri commerciali, la pubblicità. Quel che sul piano economico è consumo, diventava consumismo, fondato sul principio per il quale l’appagamento di un bisogno ne stimola il sorgere di uno nuovo.

Occorre per questo imparare a distinguere dagli altri i falsi bisogni. La maggior parte dei bisogni che oggi prevalgono, il bisogno di rilassarsi, di comportarsi e di consumare in accordo con gli annunci pubblicitari, di amare, di odiare ciò che gli altri amano e odiano, appartengono a questa categoria di falsi bisogni, i bisogni repressivi.. Può essere infatti che l’individuo trovi piacere nel soddisfare i propri bisogni, ma questa felicità non è una condizione che il consumismo accetti di perpetuare, onde evitare la staticità degli acquisti.

Alla base del consumismo vi è l’idea di sfornare continue novità in ogni campo facendo sì che le persone si abituino ad acquistare prodotti non per la loro necessità ma piuttosto per quello che questi rappresentano. Il contributo della pubblicità ha aggravato questo processo ormai presente nella società odierna; essa invoglia i potenziali consumatori ad acquistare i prodotti che vengono mostrati.

Citazioni sul consumismo.

…. ha trasformato i proletari e i sottoproletari italiani, sostanzialmente, in piccolo borghesi, divorati, per di più, dall’ansia economica di esserlo…. (Pier Paolo Pasolini)
Il cliente, il pubblico, è un bambino di undici anni, neppure tanto intelligente. (Silvio Berlusconi)

In effetti consumare è un aspetto naturale del vivere in società.

Vivere in società è una decisione naturale e morale. Si decide di vivere in società perché così possiamo soddisfare le nostre esigenze meglio di quanto faremmo da soli. Sin dall’origine della specie ci si è resi conto che benefici maggiori potevano essere ottenuti attraverso la cooperazione, la divisione del lavoro e l’interdipendenza. Uniti i nostri sforzi, anche i nostri interessi si intrecciano dando vita così al mercato, in cui avvengono gli scambi volontari mutuamente vantaggiosi. Il mercato è in effetti la più alta espressione di cooperazione e di interdipendenza degli uomini. Pensiamo a quante centinaia di migliaia di persone cooperano per mettere a nostra disposizione un computer o un’automobile da quelli che lavorano nelle varie miniere per provvedere alle materie prime agli impiegati degli uffici commerciali e marketing fino ai distributori ed ai concessionari. Tutte queste persone lavorano naturalmente per ricavarne un profitto. Finalmente qualcuno compra un computer o un’automobile per soddisfare un bisogno o un desiderio.

In pratica possiamo dire che consumiamo perché preferiamo godere dei frutti del lavoro di centinaia di migliaia di persone piuttosto che lavorare da soli per produrre qualcosa.

Tutto questo va bene se parliamo in generale di mercato e di consumo.

I “fanatici” del mercato dicono, con qualche ragione, che il mercato tende a rendere più omogenea la società e ad attenuarne le disparità, che sono stati la produzione ed il consumo di massa ad avvantaggiare i poveri e che se siamo tutti in grado di vivere circondati dalla tecnologia è perché da essa le persone traggono profitto e perché competizione e progresso tecnologico, a lungo andare, fanno sì che i prezzi tendano a scendere; e quindi prezzi più bassi permettono di fare più cose col denaro a disposizione al fine di soddisfare meglio le nostre esigenze. Dicono anche, forse esagerando un po’ e con qualche superficialità, che la voglia di soddisfare le proprie ambizioni personali è il carburante del progresso e dare libera espressione ai desideri delle persone per migliorare la loro vita è la sola vera giustizia sociale.

D’altra parte una volta gli acquisti si facevano per comperare il necessario (le tre elle: Latte, Letto e Lana). Ora che nei paesi più ricchi il necessario ce l’hanno in molti, gli acquisti si fanno per altri motivi: per fare bella figura, per riempire un vuoto, facendo quindi prevalere l’avere sull’essere (la quarta elle: Lusso)..

Il consumismo ha trasformato i cittadini in consumatori forzati di prodotti dall’utilità sempre più dubbia, dalla vita utile sempre più breve e dal grande spreco. Pensiamo al fatto che la nostra automobile rimane ferma (non mobile) in media per il 95% della sua vita.

E’ possibile affermare che la realtà è che il modello di “sviluppo” vigente è arrivato al capolinea. Solo ridefinendo gli stili di vita e riscoprendo l’individuo è possibile uscire rafforzati da questo momento storico.

Accettando queste ipotesi, alquanto catastrofiste, potremmo affermare che “consumatore” è una persona che non sceglie un prodotto perché costa meno, perché è più salutare, perché appartiene alla propria tradizione gastronomica; lo sceglie perché è indotto a farlo e non può farne a meno. E quindi il marketing, la promozione, la pubblicità sono il diavolo.

In effetti è forse venuto il momento di passare a un atteggiamento responsabile, consapevole e rispettoso verso l’ambiente in cui viviamo, un atteggiamento che si basi sulla semplicità volontaria.

Questo è il messaggio importante e decisivo per il nostro futuro che anche un momento difficile come l’attuale crisi economica può comunicarci.

E’ importante, a questo punto, rilevare il pericolo di cadere in qualche estremismo oppure nel fatale errore di voler risolvere problemi complessi con decisioni semplici.
Erich Fromm parla di “consumo ragionevole“, oggi si parla di “consumo sostenibile“.

Già nel 1936 Richard Gregg aveva formulato il concetto del “Voluntary Simplicity”.

Questo si basa su una volontaria semplicità nello stile di vita, tende ad un basso consumo (di beni di consumo, di energia) e preferisce valori quali l’indipendenza, l’autostima e una responsabilità ecologica. Si tratta quindi di privilegiare l’essere sull’avere.

Il punto ed il progetto

Il punto
Una domanda che spesso ci si sente rivolgere: “Manager si nasce o si diventa?” . Dello stesso tenore è “Imprenditore si nasce o si diventa?”. Le risposte a queste due domande sono spesso di una banalità sconcertante. Non staremo qui a dissertare dunque sul fatto che per le due categorie c’è bisogno di una certa attitudine, c’è bisogno poi di essere in un certo ambiente, c’è poi bisogno di conoscenza, competenza ed esperienza acquisibili più o meno facilmente, e così via concionando. Spesso poi si comincia con le definizioni partendo da wikipedia.

Cominciamo col dire che le due figure possono e devono essere assimilate: se un imprenditore non è anche un manager e se un manager non è anche un imprenditore sicuramente manca qualcosa. L’idea che l’imprenditore progetta e comanda ed il manager esegue è vecchia, antiquata, e fuorviante. Il concetto rigidamente gerarchico d’impresa è ampiamente superato. Un imprenditore deve essere anche capace di gestire ed ad un manager non può mancare la volontà di rischiare tipica dell’imprenditore. Un’impresa è un sistema complesso diverso da tutti gli altri sistemi/impresa. Non intendo quindi stabilire delle norme, ma solo suggerire dei processi derivanti da una lunga ed intensa esperienza nel campo della direzione d’impresa e della consulenza.

Ricordo perfettamente il mio primo incarico “manageriale”. Si trattava di gestire il laboratorio della facoltà d’Ingegneria Aeronautica dell’Università Federico II° di Napoli. Nel laboratorio si svolgevano studi ed esperienze al tunnel del vento a Mach3 (3 volte la velocità del suono). Mi sono sempre chiesto il motivo per cui il professor Luigi Napolitano mi avesse offerto quell’incarico, nonostante la mia non brillantissima carriera universitaria. Avevo superato il biennio in quasi quattro anni, alternando la preparazione degli esami con diverse altre attività: uno stage in Egitto presso un’impresa tessile di tre mesi che avevo allungato a sei mesi, dimostratore/venditore di lucidatrici domestiche Electrolux, fotografo, scenografo per una compagnia universitaria, assistente di un investigatore privato, artista pittore (avevo trovato un mercante che comprava tutto e non ho mai saputo cosa ne facesse), partecipazione ed animatore di eventi politico/culturali. Avevo superato gli esami del triennio ed ero pronto per la tesi quando ricevetti l’incarico. L’esperienza durò circa tre anni, fino alla laurea. Il professor Napolitano fu un grande maestro.

In effetti il primo incarico vero, con responsabilità di budget, lo ebbi dall’Olivetti: Servizio Tecnico Assistenza Clienti della filiale di Palermo. Non fu facile farmi accettare dalla trentina di persone, tra tecnici ed amministrativi, di cui ero responsabile. A Palermo appresi la differenza tra autorità ed autorevolezza. Furono sufficienti un paio di dimostrazioni di competenza per ottenere il rispetto e la stima del personale. Prima di assumere l’incarico avevo smontato e rimontato macchine da scrivere, da calcolo e contabili ed ero andato in giro tra Milano, Bologna, Torino, Genova trascinando una pesante valigia di attrezzi e cercando, sotto la guida di esperti capi officina di riparare macchine di clienti. Questa preparazione durò più di un anno. Allora si usava così: Oggi sembra che sia sufficiente una laurea, anche breve, o magari un master per assumere un incarico di responsabilità e non è neppure necessario sapere che Napoleone ha anche subito qualche sconfitta, con i risultati che sono sotto gli occhi di tutti. Ma di questo abbiamo già detto. Anche l’incarico a Londra per la British Olivetti per la gestione e lo sviluppo del Servizio Tecnico con ventiquattro filiali e circa duecentotrenta collaboratori tra amministrativi, capiofficina e tecnici fu una importante esperienza. L’incarico poi di Funzionario Vendita Sistemi presso la Sede di Rappresentanza di Roma, unico cliente Ministero delle Finanze, con la partecipazione al Progetto per l’Anagrafe Tributaria, mi convinse di essere pronto per spiccare il volo e lasciare la comodità di “mamma Olivetti”.

Ma la più importante esperienza di management, quella che in definitiva considero la più formativa si materializzò dopo aver deciso di lasciare l’Olivetti ed intraprendere la strada di consulente di direzione in proprio. Ero all’epoca un giovane manager/consulente che gestiva in Zambia, per conto di una società di Mediobanca il concessionario Olivetti, occupandomi nello stesso tempo dei paesi subsahariani come consulente dell’Olivetti stessa. Un sabato pomeriggio mi fu offerta la Direzione Generale di una industria di articolati ed autobotti: avrei preso possesso della carica il lunedì mattina. Si trattava della Lusaka Engineering Company, 1.400 persone, partecipazione 40% Stato Zambiano, 40% Mediobanca e 20% Fratelli Piacenza. La mia ultima esperienza di gestione era stata fino a quel momento la direzione dell’assistenza tecnica clienti per l’area di Londra (230 tra tecnici ed amministrativi). Ritenni quindi onesto dichiarare la mia esitazione ad accettare l’incarico per manifesta mancanza di esperienza. Ebbi molto coraggio: dimenticavo di dire che l’offerta mi fu fatta personalmente dal dottor Enrico Cuccia. Ed è da lui che ricevetti una lezione di management che non potrò mai dimenticare. L’uomo parlava pochissimo, ho avuto poi modo di incontrarlo un altro paio di volte in Africa ed a Milano. Egli scrisse su un foglio che ancora conservo quattro frasi: fatture emesse, fatture ricevute, pagamenti ricevuti e pagamenti effettuati. Mi girò il foglio perché lo leggessi e disse: “Guardi ingegnere lei lunedì va in fabbrica, per due settimane non prende nessuna decisione e tutte le sere si fa portare nel suo ufficio dal Direttore Amministrativo questi quattro numeri, alla fine delle due settimane riunisce tutti i direttori (non usava la parola manager) intorno al tavolo della Direzione, tiene i numeri in ordine davanti a sé e comincia a fare domande. Vedrà che dopo la riunione sarà in grado di prendere decisioni.” Seguii le istruzioni alla lettera, per fortuna avevo una segretaria inglese non molto attraente ma molto efficiente, e dopo due anni della mia gestione la Price Waterhouse potè stilare un report pieno di complimenti per il management.

Dopo altre esperienze di direzione d’impresa e di consulenza in America latina coronate da successo decisi che avevo bisogno di un anno sabbatico e tornai in Europa, in Inghilterra. Cercai a Londra di essere assunto come autista dei famosi bus a due piani. In fondo in Africa, oltre al conseguimento del brevetto di pilota, avevo appreso a guidare gli articolati sulla “hell run” tra Lusaka e Dar el Salam in Tanzania. Fui scartato all’esame teorico. Riuscii comunque ad essere assunto come venditore in un negozio di apparecchiature fotografiche Ricordo ancora l’espressione del padrone del negozio quando gli raccontai, su sua richiesta, cosa avevo fatto prima. L’esperienza, molto divertente e rilassante, di commesso di negozio durò poco più di un anno. Poi misi su una società di pubbliche relazioni e rappresentanza di importanti ditte di accessori per abbigliamento che durò circa sei anni. Avevamo grandi imprese italiane del livello di Ferragamo, Valentino, Gucci e grandi clienti inglesi del livello di Harrods, Marks and Spencer..

Negli ultimi venticinque anni trascorsi in Italia e con attività di consulenza e formazione manageriale in tutta Europa ed in America latina altre esperienze si sono accumulate. Dalla società di consulenza fondata a Roma sono passati decine di giovani consulenti a cui ho sempre cercato di trasferire conoscenza e spirito manageriale ed imprenditoriale.


Il progetto
Delle MPMI (la prima M sta per Micro) abbiamo già detto. Abbiamo anche pubblicato un, credo utile, ebook. Della complessità abbiamo già parlato. A questo proposito mi piace inserire alcuni concetti fondamentali:

“lo sviluppo del concetto di simultaneità; il concetto di velocità ed il rapporto spazio-tempo sono influenzati fortemente dall'impiego di macchine (automobili, treni ed aerei) che consentono spostamenti rapidi”.

Bohr (1885 - 1962) e Planck (1858 - 1947)
lo scienziato non è più in grado di definire regole stabili di funzionamento dell’universo e può solo cogliere ricorrenze statistiche e fare ipotesi basate sul calcolo delle probabilità.

Heisenberg (1901 - 1976)
"principio di indeterminazione"ogni campo di osservazione si modifica in rapporto all’osservatore.

Einstein
“spazio e tempo dipendono dai sistemi di riferimento prescelti e costituiscono una struttura unica”.

Poincarè (1854 - 1912),
“lo scienziato non è strumento di passiva registrazione di dati oggettivi, ma soggetto creativo e attivo nella costruzione della scienza”.

Bergson (1859 - 1941)
“siamo il prodotto non solo di tutti i momenti della nostra vita, ma degli aspetti nuovi che ogni momento acquista col passare del tempo, la conoscenza è un fatto oggettivo che si trasforma col tempo”.

Freud (1856 - 1939)
“ogni individuo ha una natura multipla, spesso imprevedibile, contraddittoria e quindi non sa chi è e non può pianificare la sua azione nel mondo”.


In principio furono i Greci……

Panta rei ovvero "tutto scorre, tutto si trasforma": è questo il famoso aforisma di Eraclito (VI sec. a.C.) che introduce nel pensiero filosofico classico il tema del dinamismo (divenire).

… il concetto di atomo risale a molto prima che avesse inizio la scienza moderna nel diciassettesimo secolo: esso ha avuto origine nell’antica filosofia greca e risale a quel primo periodo il concetto basilare del materialismo insegnato da Leucippo e da Democrito.

Secondo Anassimandro: " da dove infatti gli esseri hanno origine ivi hanno anche la distruzione secondo NECESSITA’ perché essi pagano l’uno all’altro la pena e l’espiazione dell’ingiustizia secondo l’ORDINE del tempo" (Giannantoni, " I Presocratici", testimonianze e frammenti).

L’idea che l’Universo sia ordinato ha origine nel pensiero Pre-socratico ed ancor prima nelle teogonie (nascita degli dei) di Esiodo, e trova la sua massima espressione nella filosofia di Pitagora.

Parmenide ed Eraclito, spostarono il problema dall'individuazione di una sostanza generale al problema dell'Essere e del Divenire.

Democrito, Epicuro e Lucrezio, avevano manifestato l'esigenza di ridurre entro uno schema comprensibile all'uomo, entro una struttura concettuale, l'immenso e il mutabile, l'eterno e il divenire.


L’Età Moderna

Gli autori/scienziati: Cartesio, Galileo, Bacone, Newton.
Da un punto di vista etico la Scienza moderna ha tentato disperatamente di decifrare i simboli del libro della natura scritto da Dio.

Gli autori/artisti: Laurence Sterne, Oscar Wilde, Proust, James Joyce, Italo Svevo, Monet, Cezanne, Dalì, Picasso, Braque, Jackson Pollock.



Dall’esperienza, dal trend verso l’artigianato (di questo parleremo un’altra volta), dalla complessità e dal concetto di caos, dalla necessità di crescita di manager ed imprenditori, dalla velocità delle trasformazioni sociali, organizzative, tecnologiche, economiche ed organizzative nasce il “progetto conoscenza”. Al momento gli strumenti utilizzati sono quattro:

un sito dedicato completamente alle MPMI;
un blog informativo ed aggiornato;
una rivista online: questa;
una sala riunioni virtuale per convegni, incontri e formazione online.


Il progetto conoscenza si propone di coinvolgere imprenditori e dirigenti di MPMI per renderli consapevoli della necessità di utilizzare strumenti e metodologie avanzate di organizzazione, marketing, risorse umane, amministrazione, ricerca e sviluppo, internazionalizzazione. Allo stesso tempo coinvolgere i consulenti di direzione per renderli consapevoli della necessità di adattare le proprie conoscenze ed esperienze alla esigenze delle MPMI, molto diverse da quelle delle grandi imprese. In pratica (tras)formare dirigenti e consulenti in imprenditori in grado di utilizzare strumenti avanzati di organizzazione, marketing, risorse umane, amministrazione e ricerca e sviluppo adattandoli alla realtà delle MPMI.

L’obiettivo è sfatare il mito dell’impossibilità di adottare strumenti complessi adatti solo a grandi imprese.

Il futuro è già cominciato

Una notizia buona e giusta: la nascita di “Rete Imprese Italia”. 2,6 milioni d’imprese rappresentate da Confartigianato, Confcommercio, Cna, Confesercenti e Casartigiani hanno deciso l’aggregazione. I numeri sono importanti: in Italia sono circa 4 milioni le MPMI (la prima M sta per Micro), pari al 94,7% delle aziende italiane, con circa 14 milioni di addetti, pari al 58% della forza lavoro italiana. La RIA si presenta quindi come una grande forza potenzialmente in grado di incidere sulla politica e le riforme indispensabili per la crescita, l’innovazione e la competitività della categoria.

Le richieste della RIA sono:

1. Riduzione aliquote IRPEF;
2. Ampliamento base imponibile;
3. Lotta all’evasione per ridurre l’IRAP;
4. Riduzione spesa pubblica grazie al Federalismo Fiscale;
5. Semplificazione e snellimento delle procedure;
6. Riforma degli ammortizzatori sociali;
7. Nuovi parametri di accesso al credito.

Tutte queste richieste, legittime, sono vitali per la sopravvivenza delle MPMI e per la maggior parte comprese ne “La Carta europea per le piccole imprese, creata su richie­sta del Consiglio europeo di Lisbona del 2000”. Ad ogni modo, se mi è permessa una osservazione, si tratta per la maggior parte di richieste, sia pur fondamentali, riguardanti l’area burocratico/amministrativa. L’accento è quindi prevalentemente messo sulla sopravvivenza dal punto di vista economico; nulla, almeno in maniera esplicita, si dice sul cambiamento e quindi sulla crescita e l’innovazione.

I fattori fondamentali che influenzano la vita delle imprese, di qualsiasi dimensione, sono quattro:

1. il mercato (clienti, fornitori, concorrenti);
2. il progresso tecnologico;
3. le leggi;
4. le relazioni con le risorse umane.

Tutti questi fattori cambiano continuamente e negli ultimi anni i cambiamenti hanno subito una vera e propria (r)evolution. In sintesi possiamo affermare che domani è già qui.

Robert Jungk pubblicò nel 1954 con Simon and Schuster un saggio intitolato “Tomorrow Is Already Here”, successivamente tradotto in italiano con l’improbabile titolo “Il futuro è già cominciato”. I miei ricordi risalgono ad almeno sette anni prima (1948). Andavo a scuola (prima media) a piedi e mi fermavo sempre davanti alla vetrina di un libraio ammirando un libro con questo titolo. Il libro aveva una copertina coloratissima con immagini, avveniristiche per l’epoca, di aerei, treni, navi, automobili. Non ricordo più come, ma riuscii a convincere mio padre che quello fosse un libro importante per la scuola e finalmente potei averlo tra le mani.La cosa che ricordo di quel libro, purtroppo non l’ho più, a parte la fantasmagorica copertina,è l’entusiasmo che mi trasmise e il desiderio di far parte di quel futuro. Ed è proprio questo desiderio la molla che spinge il vero imprenditore: non solo far parte del futuro ma costruire il proprio futuro.

La strada giusta per le MPMI è il cambiamento. E’ necessario cambiare il modo di approccio al mercato, mettersi al passo con il progresso tecnologico ed aggiornare la conoscenza. Le parole chiave sono dunque mercato, digitalizzazione e conoscenza.
Il mercato è completamente cambiato, i clienti sono più informati, più esigenti, hanno più scelte, i concorrenti sono più agguerriti. Per quanto riguarda il progresso tecnologico, Internet ha apportato una grande trasformazione nel sistema di comunicazione. Per quello che concerne la conoscenza, i sistemi di gestione hanno fatto dei grossi passi avanti: oggi non è più possibile gestire l’impresa, anche se individuale, guardando solo al conto economico ed al bilancio, questi sono solo il risultato della nostra attività nel campo del marketing, dei nostri processi interni e della capacità e competenza delle risorse umane.

L’introduzione del cambiamento in generale non è un grosso problema, in special modo per le MPMI che in genere sono molto flessibili e veloci nelle decisioni. Il problema sorge nella gestione del cambiamento. L’introduzione del cambiamento in maniera non corretta può essere deleteria per l’impresa, e questo non solo per la naturale resistenza dei collaboratori. La fase più importante nell’introduzione del cambiamento è quella della preparazione. Si tratta di comunicare il cambiamento a tutta l’impresa, fare in modo che tutti partecipino e comprendano in cosa consiste e le sue conseguenze. La partecipazione ed il coinvolgimento delle persone nella gestione del cambiamento è assolutamente vitale e quindi va perseguita con cura ed attenzione.

In conclusione mi permetto di dire che l’iniziativa “Rete Imprese Italia” è importante, ma se sarà solo limitata a perseguire obiettivi di tipo legislativo ed amministrativo non sarà di grande beneficio per le MPMI. Le parole chiave, lo ricordiamo ancora una volta, sono mercato, digitalizzazione e conoscenza. Se non ci si concentrerà sul cambiamento in queste tre aree fondamentali non avremo fatto un buon lavoro.

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Essere, sapere, saper fare

L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto da non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione ed apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.

(Italo Calvino, Le città invisibili) .


Imprenditore si nasce o si diventa? Quante volte ci siamo sentiti porre questa domanda. E quante volte abbiamo letto od ascoltato risposte spesso banali o analisi profonde ed astratte. Discorsi da bar dello sport. Sull’argomento penso di poter dire qualcosa di non banale, forte dell’esperienza di aver fondato diverse imprese in diversi paesi (Zambia, Ecuador, Inghilterra e in Italia più volte) e di aver contribuito alla fondazione di tante altre in qualità di consulente di direzione in diversi paesi ed in Italia più volte. Cominciamo subito col dire che è sicuro: imprenditore si diventa (ci si può costruire), se lo si vuole con determinazione, ed anche la volontà e la determinazione si possono costruire ed alimentare. Di quali siano le attitudini necessarie all’imprenditore avevamo già detto (vedi Caosmanagement n°.44). Si tratta in ogni caso di attitudini “costruibili” e “conseguibili” non necessariamente innate. L’elenco più gettonato è il seguente:

fiducia in se stessi;


ottimismo;


stabilità ed equilibrio emotivo;


capacità di organizzazione e pianificazione;


flessibilità;


propensione al rischio;


tenacia;


capacità relazionali e comunicative.

Sulla propensione al rischio starei molto attento e non posso fare a meno di citare una esperienza personale. Durante la mia residenza in Zambia come consulente per conto di Mediobanca fondai una piccola società di produzione cinematografica; si trattava praticamente di una “one man band”. Tra le varie attività della società, spot pubblicitari, vari documentari per enti statali, ottenni l’incarico di corrispondente di VisNews, una società della Reuters. Filmavo tutto quello che avveniva, inaugurazioni, cronaca, convegni politici, ed inviavo per corriere a Londra, 50 US$ per cinque minuti di raw material. Era l’inizio degli anni settanta ed in Angola c’era la guerra: tre missioni in zona di guerra. Non si trattava di propensione al rischio, era pura incoscienza. Con la mia pesante cinecamera Arriflex 16mm sulla spalla, le batterie legate ai fianchi ed il registratore Nagra appeso al collo mi sentivo come in una corazza invulnerabile con le pallottole che fischiavano intorno e le mine che scoppiavano vicino.

Essere
Quello che è molto importante per l’essere sono le motivazioni che ci spingono ad intraprendere una attività autonoma, per quanto lo possa essere l’attività di imprenditore. La motivazione è un elemento chiave perché è l’energia che stimola ad esercitare le capacità, ad affrontare gli ostacoli e ad impegnarsi per raggiungere gli obiettivi. La motivazione è tanto più forte, quanto più importante è il valore che si attribuisce all’obiettivo che si vuole raggiungere. La decisione di intraprendere, sia pure in solitario, può essere presa per caso, per un’idea che ci sembra fantastica, per voglia di cambiare, per voglia d’indipendenza, per curiosità, per spirito d’avventura, per necessità, per passione. Si tratta di motivazioni valide. Da una sola motivazione dobbiamo guardarci: se siamo solo e principalmente motivati dalla voglia di arricchirci. Questa non è una valida motivazione.

Sapere
Proviamo a digitare in qualsiasi motore di ricerca su internet “diventare imprenditore”. Troveremo più di 200.000 siti che promettono di dirci come si fa. Solo alcuni sono di una qualche utilità e possono darci qualche idea su cosa dobbiamo apprendere per costruire un’attività in proprio. Il 50% vogliono iscriverci a qualche corso di cui è prescritta la durata in ore ed i contenuti più vari. Ce ne sono addirittura alcuni che promettono di trasformarci in “Consulenti di Direzione” in 2 o 300 ore, col rischio di mettere sul mercato della consulenza giovani laureati, magari con master, che poi pretendono di indicare agli imprenditori, quelli veri, cosa fare. Un altro buon 40% ci descrive tutte le procedure burocratiche necessarie: lo statuto, la camera di commercio, la partita IVA, i contratti di lavoro, la tenuta dei libri contabili, il bilancio, il conto economico, fiscalità, finanziamenti, contributi, tutte questioni burocratiche e complicate che stanno, oltretutto, per essere semplificate come è già accaduto nella quasi totalità dei http://gem4pmi.com/d6/?q=content/leuropa-le-pmi-0 paesi europei . E’ molto importante non lasciarsi coinvolgere da questi aspetti burocratici del fare impresa. Si tratta invece di concentrarsi su quello che dovrà essere il nostro obiettivo strategico: cosa vogliamo, dobbiamo e possiamo fare per servire altri traendone anche noi soddisfazione.

Su qualcuno di questi siti ci sono delle indicazioni utili quali per esempio domande da farsi prima di cominciare ad intraprendere:

In cosa consiste il prodotto/servizio?


Quali caratteristiche lo rendono diverso?


È in grado di confrontarsi sul mercato? In che modo?


Quali risorse produttive, umane, finanziarie, tecnologiche e ambientali sono necessarie per la sua realizzazione? Come si pensa di reperirle?


Quali sono i potenziali clienti?


Quali bisogni (primari, secondari) va a soddisfare?


Quali sono i concorrenti?


Quali minacce possono rappresentare un problema per l’impresa?


Quali opportunità ed occasioni si possono sfruttare per l’avvio?


Quali strategie si pensa di adottare per realizzare gli obiettivi?


Qual è il tipo di struttura organizzativa?

Non sarà necessario sapere rispondere in maniera esauriente a tutte queste domande, ma è sicuramente importante documentarsi ed apprendere questi elementi per poter costruire un buon piano di fattibilità ed un buon piano di marketing. Sui sistemi per apprendere abbiamo già detto in un precedente numero della rivista. Possiamo solo aggiungere che per far crescere la nostra conoscenza, il nostro sapere, è assolutamente necessario studiare, leggere, essere prima di tutto curiosi e non accontentarsi della prima risposta. Non ci limiteremo ai manuali di management spesso obsoleti e che non tengono conto dei grandi cambiamenti avvenuti. Avremo occhi ed orecchie spalancati per tutto quello che avviene intorno a noi e nel mondo. E non ci farà certamente male se leggeremo anche letteratura e filosofia, c’è tanto da apprendere anche dall’arte. Quando mi si chiede consiglio sulla facoltà universitaria suggerisco sempre filosofia, se si ritiene proprio necessario iscriversi all’università: bisogna apprendere ad apprendere. Non fidiamoci di ricette o vademecum.

Saper fare
Il primo incarico in Olivetti fu la gestione dello STAC (Servizio Tecnico Assistenza Clienti) della filiale di Palermo, fra personale tecnico ed amministrativo ventisei persone. In uno dei primi giorni in pratica mi sparì un tecnico, al suo ritorno in tardo pomeriggio naturalmente gli chiesi spiegazioni. Mi raccontò di enormi difficoltà per la riparazione di una macchina contabile: aveva dovuto smontarne diverse parti per raggiungere una levetta da registrare. Simulammo insieme il difetto e gli mostrai come ripararlo in non più di 10 minuti. Da quel momento ricevetti il massimo rispetto e diventai il capo. Tutto questo grazie ai dodici mesi, dall’assunzione all’incarico, durante i quali avevo ricevuto formazione ed addestramento intensa: smontare macchine da scrivere e da calcolo fino ad ottenere tanti mucchi di vitine, levette, mollettine e poi rimontare il tutto perché funzionasse di nuovo, periodi di permanenza in varie filiali come semplice tecnico, affiancamento a diversi capiofficina, lezioni teorico/pratiche di basic management. Non basta sapere bisogna anche saper fare.

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Outsourcing: come applicarlo

Da più di trent'anni le imprese ricorrono all'outsourcing per risolvere alcuni dei loro problemi e per tentare di ridurre i costi di gestione; questa tendenza continua a crescere con l'ulteriore processo di terziarizzazione della nostra economia.

Il ricorso all'outsourcing, però, sta diventando sempre più importante per le aziende e da elemento di supporto si sta trasformando in fattore strategico di grande rilevanza, prevedendo l'esternalizzazione di un intero processo aziendale (Business Process Outsourcing).

La società che fornisce il servizio di outsourcing, non avrà più in gestione una singola attività, ma un intero processo, compresa la gestione finanziaria e delle risorse umane; questa modalità, il BPO, prevede la condivisione degli obiettivi e delle responsabilità, in questo modo il fornitore è elevato a livello di partner della società committente ed è spinto a lavorare meglio ed in maniera ancora più efficace.

L'outsourcing permette di:

ridurre costi;
sviluppare e controllare le strategie rapidamente;
esternalizzare le attività per incrementare l'efficacia;
snellire i processi interni.

L’outsourcing: moda o necessità?
L’outsourcing, contrazione dell’inglese “outside resourcing”, è in Italia, in molti casi una moda, in molti altri un pessimo servizio, in pochi casi un buon esempio di corretta gestione. Tuttavia, sarebbe estremamente sbagliato ritenere che non funzioni, ma è altrettanto doveroso dire che fino ad oggi, poche realtà hanno tratto un reale vantaggio nell’affidare all’esterno una attività o un servizio non strategico.

Credo che un po’ di confusione e di malinterpretazione ci sia stata sia da parte delle aziende, sia da parte delle strutture che hanno erogato il servizio. Intanto definiamo bene il concetto: Outsourcing vuol dire affidare un’attività non strategica in gestione esterna. Ovvero, tutte le attività di gestione svolte, per un periodo di tempo prolungato (diversi anni) e definito a livello contrattuale, da un operatore esterno all’azienda cliente.

E’ un accordo, stipulato tra committente e fornitore (outsourcer), in base al quale il primo appalta al secondo una funzione o un servizio, che in precedenza realizzava al proprio interno. I vantaggi che un’azienda otterrebbe, affidando quei servizi o funzioni non strategiche in outsourcing, sono molti e tutti significativi.

Ad esempio, esternalizzare alcuni servizi consente, alla azienda committente, di concentrarsi solo sul proprio "core business", cioè su tutte le attività in grado di generare direttamente profitti, lasciando all'outsourcer il compito di gestire le funzioni di supporto.

Permette all'azienda di fruire di un servizio con elevati standard qualitativi (perché erogato da specialisti) e a costi competitivi. Riduce l'esposizione finanziaria necessaria all'acquisto e all'adeguamento di attrezzature e tecnologia necessarie per lo svolgimento di tutte quelle attività considerate di supporto.

Negli anni 80, in Inghilterra, io ero lì, tutti parlavano dell’outsourcing come del nuovo mercato, a cui tutti dovevamo abituarci al più presto. Era quello il periodo peggiore per la Pubblica Amministrazione inglese che, costantemente sotto pressione per bassa qualità del servizio e costi gestionali altissimi, si interrogava su tutte le possibili soluzioni. Le soluzioni potevano essere di due tipi:

uno interno – con piani di aggiornamento e di miglioramento destinati ad elevare la qualità del servizio comprimendo il più possibile i costi gestionali;


uno esterno – affidando fuori alcuni servizi ritenuti non strategici.

Prevalse di gran lunga la seconda ipotesi, e quindi di li a poco assistemmo ad una radicale trasformazione dei Ministeri inglesi. Nacquero le “Next Steps Agencies” con il compito di gestire le funzioni operative dei Ministeri al fine di consentire ai Ministeri di concentrarsi meglio sulla formulazione delle politiche. Molti ministeri, vennero così scorporati affidando alle Agenzie il compito di ottenere risultati.

L’impressione avuta, è che sul piano dei risultati sussistono pesanti dubbi che queste agenzie abbiano comportato miglioramenti. Forse perché create in prevalenza con il personale che prima prestava servizio nell’amministrazione e quindi, ma è solo la mia impressione, poco abituati a ri-pensare costantemente il proprio lavoro col l’obiettivo del miglioramento continuo. Al contrario, alcune di esse hanno recepito l’idea del cambiamento e i Chef Executive, reclutati nel settore privato, hanno trasformato le modalità di gestione del lavoro, generando ragguardevoli guadagni di efficienza.

In Italia la situazione non è diversa. L’approccio all’outsourcing è, a mio parere, inadeguata. La delega ad un soggetto esterno, infatti, è uno strumento incredibilmente potente del quale bisogna conoscere le potenzialità ma anche i rischi. Non si può pensare infatti di gestire un progetto di outsourcing con le modalità secondo le quali si gestiscono gli abituali rapporti cliente-fornitore.

Forse il segreto per un buon Outsourcing è concepire il rapporto con tre soggetti coinvolti: azienda committente – terza parte – outsourcer. Le mie sensazioni ed esperienze in gestione aziendale mi inducono a ritenere possa essere profittevole concepire l’outsourcing con un terzo elemento, in sostanza con un “arbitro”. Un soggetto che preposto alla gestione ed alla regolamentazione del rapporto di Outsourcing abbia come obiettivo e come suo “core business” l’ottenimento degli obiettivi fissati contrattualmente.

E’ questo il punto focale dell’outsourcing: il raggiungimento di un obiettivo. Ed in questo, il ruolo dell’”arbitro” può essere estremamente importante. Nella definizione degli obiettivi, ad esempio, ed ancora, nella individuazione dei parametri da misurare per verificare l’effettivo raggiungimento dei risultati.

L’arbitro, che sia una società di consulenza o un consulente free lance, sa benissimo quanto sia importante il monitoraggio quotidiano per tenere in rotta la nave. Anche perché dal raggiungimento dell’obiettivo dipenderà, la soddisfazione dell’azienda committente e dell’outsourcer, ma anche, anzi soprattutto, la sua riconferma. Quindi, starà ben attento al raggiungimento dell’obiettivo. Nella fase di individuazione dell’obiettivo si gioca, in buona parte, la partita. Non serve a nessuno avere dei partner compiacenti e disposti a tutto pur di fatturare qualche milione. Lo spirito dell’azienda committente, la sua missione e tutto quello che ne consegue, deve essere a conoscenza dell’outsourcer e da questo accettato.

Se l’efficienza in ogni area fa parte della filosofia dell’azienda committente, la stessa efficienza si deve pretendere dall’outsourcer, al quale si delega l’esecuzione del servizio ma non la responsabilità nei confronti del cliente. E infatti, ricordiamocelo sempre, al nostro cliente non interessa chi svolge il servizio, ma solo che gli accordi presi con noi, e non con l’outsourcer, vengano rispettati, soddisfacendo così le proprie aspettative.

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Ancora MBO (Gestione per Obiettivi)

Nonostante le esortazioni di W. Eduards Deming ( 11° punto dei suoi famosi 14: Point 11(b) Eliminate management by objectives.) da più di sei lustri e la sua, di Deming, impeccabile dimostrazione sulla inconsistenza e dannosità della Gestione per Obiettivi (MBO) di Peter Drucker, ancora oggi se ne continua a parlare e, peggio, si continua a suggerire la sua applicazione ai nostri studenti di management ed ai nostri imprenditori.

Con il gusto tutto nordamericano è stato anche inventato un acronimo accattivante: l’obiettivo deve essere SMART, che sta per Specific, Measurable, Achievable, Relevant, Time-Specific. La parolina più interessante è Achievable (raggiungibile); e che vuol dire? Come fa un manager a decidere che quell’obiettivo (specifico, misurabile, rilevante ed attuale) è raggiungibile da parte di quella persona o di quel reparto in una particolare situazione? Come fa a sapere che il target non è troppo alto o troppo basso?

La dimostrazione di Deming è molto accurata ed è basata su una teoria che gli statistici conoscono molto bene e che purtroppo i manager usano molto poco o per niente: la “variation theory”. La teoria della variazione ha cinque concetti base:

Ogni variazione ha una causa.
Esistono due principali tipi di causa: cause comuni o cause di sistema, cause speciali o identificabili.
Distinguere in maniera corretta il tipo di causa che provoca una variazione è importante poiché l’azione da intraprendere da parte del management è diversa a seconda che si tratti di una causa comune o di sistema, o speciale.
L’azione da intraprendere quando si tratta di una causa speciale o eccezionale è molto semplice: la causa è identificabile, quindi si tratta di fare in modo che non si verifichi di nuovo se il suo effetto è negativo e fare in modo che sia presente di nuovo se il suo effetto è positivo.
La cosa è più complessa se si tratta di un avvenimento, negativo o positivo, conseguenza di una causa di sistema, quindi identificabile soltanto andando a fondo (quello che Deming chiama “in-depth knowledge”), utilizzando quindi strumenti come diagramma causa effetto, analisi di Pareto etc. e sperimentando modifiche al processo.

Non si tratta quindi di congratularsi con il venditore che ha raggiunto o superato il suo budget/obiettivo di vendita quel mese e punire quello che non lo ha raggiunto, ma si tratta di applicare i metodi statistici con conoscenza ed esperienza. Oltretutto è stato dimostrato che un premio in generale provoca una diminuzione della performance il mese successivo ed una punizione non produce sempre un miglioramento. E questo ci farà comprendere sempre meno quello che sta succedendo poiché produrrà sempre più instabilità e variazioni.

Rileggendo poi uno degli esempi che Deming riporta a favore della sua tesi sull’MBO ho ricordato una esperienza personale in Olivetti. Dopo i miei due incarichi di manager, come responsabile del Servizio Tecnico Assistenza Clienti in una filiale italiana (Palermo) e quindi per l’area Great London (23 filali), ed una permanenza negli USA di quattro mesi alla Underwood, sempre per conto del Servizio Tecnico, chiesi di passare alla divisione commerciale. Dopo una serie di corsi di formazione a Firenze, fui nominato Funzionario Vendita Sistemi presso la Sede di Rappresentanza in Piazza di Spagna a Roma e mi furono assegnati due Ministeri: Finanza e Difesa. Alla fine del primo mese notai che il capogruppo ispezionava le scrivanie di tutti i funzionari. Il fatto era che ciascun funzionario, e per ciascun cliente, aveva degli obiettivi di vendita mensili su cui veniva calcolato un bonus e lo scopo delle ispezioni era quello di evitare che i funzionari che avessero già raggiunto l’obiettivo del mese conservassero gli ordini in più per il mese successivo. Naturalmente bisognava non lasciare gli ordini nella scrivania. Era l’MBO ed è quello che Deming avrebbe poi definito come suboptimization.

Vediamo ora quali sono i più importanti difetti dell’MBO:

In generale i manager fissano gli obiettivi senza negoziarli;
I collaboratori cercano di negoziare obiettivi bassi;
Si da più importanza alla determinazione dell’obiettivo che al processo ed alle condizioni per raggiungerlo;
Si sottovaluta il contesto nel quale si fissa l’obiettivo;
Ciascun manager e divisione persegue il proprio obiettivo senza tener conto, e spesso a scapito o contro, gli obiettivi degli altri dipartimenti dell’azienda;
Non si stimola l’innovazione ed il cambiamento;
E’ rigido ed inflessibile;
E’ burocratico e time consuming;
Non sollecita e non favorisce la ricerca di soluzioni a problemi ed ostacoli al raggiungimento dell’obiettivo.
Enfatizza il rapporto gerarchico e non favorisce la collaborazione;
Attribuisce al management una mera funzione di controllo sulle persone e non sui processi.

In sintesi per dirlo con Deming: “Eliminate management by objectives”.
Vedi anche dello stesso autore.

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