Dove va a finire la competitività italiana? Tra innovazione e competitività, le risorse efficaci per le imprese - Dicembre 2003
E’ di pochi giorni la notizia che la competitività italiana ed europea continuano a calare rispetto agli Stati Uniti; sono il tasso d’impiego e la produttività i veri punti deboli del nostro paese, come di tutto il continente europeo.
Dal “Rapporto sulla competitività 2003”, emergono molti spunti di riflessione, tra i quali, la nostra scarsa propensione all’innovazione e all’investimento per elevare le performance delle imprese, dal punto di vista tecnologico e della consulenza d’impresa.
Soltanto Svezia, Finlandia, Olanda e Germania, hanno investito abbastanza nella ricerca per potere essere competitivi a livello internazionale.
L’Italia ha avuto una saldo negativo dal punto di vista dell’imprenditorialità; questo vuol dire che sono state più le imprese a chiudere che quelle ad aprire. Uno dei problemi più rilevanti in questo senso, è la difficoltà nel reperire finanziamenti bancari: l’accesso al credito è molto ridotto e il ricorso al venture capital piuttosto esiguo.
Ad elevare il livello dell’imprenditorialità italiana, dovrebbero concorrere gli investimenti nei settori appena nominati, ma anche una diversa impostazione nel modo di lavorare e di affrontare il mercato ed innovarlo.
La creatività di una persona è stata considerata troppo a lungo una dote naturale, una qualità di cui pochi eletti sono portatori dalla nascita e che si confonde con i caratteri della genialità.
Questa impostazione viene ritenuta ormai lontana dalla realtà, in quanto è evidente la possibilità di apprendere e di sviluppare la creatività, con l’allenamento mentale e l’abitudine a risolvere i problemi senza percorrere le vie abituali e ricalcare le orme di chi ci ha preceduto, ma individuando nuovi percorsi e strade innovative. Come ci ricorda Silvio Motta, marketing manager di Hj International, in un’intervista concessa al Sole24ore, “la creatività non è patrimonio esclusivo di poche persone geniali, ma è un seme che va coltivato. Creare significa avere una nuova visione anche di qualcosa che già esiste; in questa accezione anche copiare, ispirarsi, assemblare, può tradursi in innovazione”. Questa impostazione viene radicalizzata dal vicepresidente di Parmalat, Domenico Barili, che afferma: “Oggi all’interno delle aziende è diffusa la malattia dell’impotenza creativa, a causa di una sempre maggior presenza di manager costruiti in laboratorio piuttosto che di gente con idee. Sembra che le imprese innovino ma nella maggior parte dei casi si tratta di imprese che copiano”.
Nel mondo delle imprese c’è spesso una tendenza a diffidare di chi propone nuove idee, di chi cerca di rinnovare la cultura aziendale o di elaborare nuove attività e processi aziendali; ma questo è uno dei limiti più evidenti della nostra economia.
La crisi economica internazionale di questi anni è stata prodotta, tra l’altro, dal tentativo di ristrutturare le attività economiche sulla base delle nuove tecnologie produttive, delle telecomunicazioni e dei trasporti. A questi cambiamenti radicali ed epocali è seguito uno sforzo a livello internazionale per adeguare le pratiche organizzative ed i processi aziendali alle nuove potenzialità emerse.
Questo percorso è stato affrontato e superato con un certo successo da molte aziende transnazionali a capitale statunitense, ma anche tedesco, francese, o da economie con forti connotati di innovatività, come quelle asiatiche.
In Italia, il trend sembra essere profondamente diverso; l’occasione di ristrutturare la nostra economia per impostare una competitività a lungo termine non è stata colta in pieno.
In queste settimana si torna a parlare di sviluppo dell’economia: il PIL statunitense ha mostrato una crescita che non si verificava dal 1984, mentre l’Europa, nonostante alcuni problemi evidenti, ha costruito attorno a Francia, Germania e Gran Bretagna un polo economico orientato ai servizi e alle nuove tecnologie.
L’Italia non ha ancora colto l’occasione ed è rimasta al “palo”; nei dibattiti e sui giornali si continua a discutere di parole troppo spesso astratte, come flessibilità e competitività, ma nei fatti la nostra economia rimane legate a dinamiche troppo arretrate.
Le lamentele delle piccole e medie imprese italiane, per la concorrenza di paesi che producono con costi molto inferiori, come il caso della Cina, può sembrare legittima, ma cela problemi profondi che devono essere risolti.
Anche le grandi imprese italiane sono pervase da un carattere di arretratezza che ne frena lo sviluppo in maniera evidente; per questo la creatività e la spinta all’innovazione sono considerate le risorse fondamentali per un rilancio necessario della nostra economia.
L’attenzione alla gestione della conoscenza, Knowledge Management, e all’utilizzo della creatività nei processi di lavoro è una caratteristica che le aziende italiane si trovano a dover sviluppare per adeguarsi alle economie più evolute ed efficaci.
Così, alla domanda che ci siamo posti all’inizio, e cioè dove va a finire la competitività italiana, rispondiamo che non è ancora dato saperlo, ma senza dubbio, la nostra imprenditorialità mostra troppi segnali di arretratezza e di mancanza di dinamismo; occorrono manager formati alle nuove sfide del mercato ed imprese pronte ad accogliere sistemi di gestione innovativi ed orientati alla gestione della conoscenza e alla valorizzazione dei cosiddetti knowledge workers.
A volte la risposta ad un periodo economico non positivo, non è nei tagli e nella riduzione dei costi pura e semplice… è possibile investire per essere più forti ed adattabili, proprio come richiede il mercato.
Dal “Rapporto sulla competitività 2003”, emergono molti spunti di riflessione, tra i quali, la nostra scarsa propensione all’innovazione e all’investimento per elevare le performance delle imprese, dal punto di vista tecnologico e della consulenza d’impresa.
Soltanto Svezia, Finlandia, Olanda e Germania, hanno investito abbastanza nella ricerca per potere essere competitivi a livello internazionale.
L’Italia ha avuto una saldo negativo dal punto di vista dell’imprenditorialità; questo vuol dire che sono state più le imprese a chiudere che quelle ad aprire. Uno dei problemi più rilevanti in questo senso, è la difficoltà nel reperire finanziamenti bancari: l’accesso al credito è molto ridotto e il ricorso al venture capital piuttosto esiguo.
Ad elevare il livello dell’imprenditorialità italiana, dovrebbero concorrere gli investimenti nei settori appena nominati, ma anche una diversa impostazione nel modo di lavorare e di affrontare il mercato ed innovarlo.
La creatività di una persona è stata considerata troppo a lungo una dote naturale, una qualità di cui pochi eletti sono portatori dalla nascita e che si confonde con i caratteri della genialità.
Questa impostazione viene ritenuta ormai lontana dalla realtà, in quanto è evidente la possibilità di apprendere e di sviluppare la creatività, con l’allenamento mentale e l’abitudine a risolvere i problemi senza percorrere le vie abituali e ricalcare le orme di chi ci ha preceduto, ma individuando nuovi percorsi e strade innovative. Come ci ricorda Silvio Motta, marketing manager di Hj International, in un’intervista concessa al Sole24ore, “la creatività non è patrimonio esclusivo di poche persone geniali, ma è un seme che va coltivato. Creare significa avere una nuova visione anche di qualcosa che già esiste; in questa accezione anche copiare, ispirarsi, assemblare, può tradursi in innovazione”. Questa impostazione viene radicalizzata dal vicepresidente di Parmalat, Domenico Barili, che afferma: “Oggi all’interno delle aziende è diffusa la malattia dell’impotenza creativa, a causa di una sempre maggior presenza di manager costruiti in laboratorio piuttosto che di gente con idee. Sembra che le imprese innovino ma nella maggior parte dei casi si tratta di imprese che copiano”.
Nel mondo delle imprese c’è spesso una tendenza a diffidare di chi propone nuove idee, di chi cerca di rinnovare la cultura aziendale o di elaborare nuove attività e processi aziendali; ma questo è uno dei limiti più evidenti della nostra economia.
La crisi economica internazionale di questi anni è stata prodotta, tra l’altro, dal tentativo di ristrutturare le attività economiche sulla base delle nuove tecnologie produttive, delle telecomunicazioni e dei trasporti. A questi cambiamenti radicali ed epocali è seguito uno sforzo a livello internazionale per adeguare le pratiche organizzative ed i processi aziendali alle nuove potenzialità emerse.
Questo percorso è stato affrontato e superato con un certo successo da molte aziende transnazionali a capitale statunitense, ma anche tedesco, francese, o da economie con forti connotati di innovatività, come quelle asiatiche.
In Italia, il trend sembra essere profondamente diverso; l’occasione di ristrutturare la nostra economia per impostare una competitività a lungo termine non è stata colta in pieno.
In queste settimana si torna a parlare di sviluppo dell’economia: il PIL statunitense ha mostrato una crescita che non si verificava dal 1984, mentre l’Europa, nonostante alcuni problemi evidenti, ha costruito attorno a Francia, Germania e Gran Bretagna un polo economico orientato ai servizi e alle nuove tecnologie.
L’Italia non ha ancora colto l’occasione ed è rimasta al “palo”; nei dibattiti e sui giornali si continua a discutere di parole troppo spesso astratte, come flessibilità e competitività, ma nei fatti la nostra economia rimane legate a dinamiche troppo arretrate.
Le lamentele delle piccole e medie imprese italiane, per la concorrenza di paesi che producono con costi molto inferiori, come il caso della Cina, può sembrare legittima, ma cela problemi profondi che devono essere risolti.
Anche le grandi imprese italiane sono pervase da un carattere di arretratezza che ne frena lo sviluppo in maniera evidente; per questo la creatività e la spinta all’innovazione sono considerate le risorse fondamentali per un rilancio necessario della nostra economia.
L’attenzione alla gestione della conoscenza, Knowledge Management, e all’utilizzo della creatività nei processi di lavoro è una caratteristica che le aziende italiane si trovano a dover sviluppare per adeguarsi alle economie più evolute ed efficaci.
Così, alla domanda che ci siamo posti all’inizio, e cioè dove va a finire la competitività italiana, rispondiamo che non è ancora dato saperlo, ma senza dubbio, la nostra imprenditorialità mostra troppi segnali di arretratezza e di mancanza di dinamismo; occorrono manager formati alle nuove sfide del mercato ed imprese pronte ad accogliere sistemi di gestione innovativi ed orientati alla gestione della conoscenza e alla valorizzazione dei cosiddetti knowledge workers.
A volte la risposta ad un periodo economico non positivo, non è nei tagli e nella riduzione dei costi pura e semplice… è possibile investire per essere più forti ed adattabili, proprio come richiede il mercato.
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